Architetti d’Italia. Edoardo Persico, il critico
Scomparso a soli 35 anni, Edoardo Persico seppe regalare all’architettura un nuovo respiro. Più vasto e finalmente libero dall’ossessione per la funzionalità.
Edoardo Persico morì a trentacinque anni, troppo presto per decidere cosa avrebbe voluto fare. Studiò giurisprudenza senza terminarla, si occupò di politica, frequentò Piero Gobetti, scrisse un romanzo, tentò di diventare editore, fece il critico d’arte. Si occupò intensamente di architettura come polemista, conferenziere, condirettore di Casabella e progettista.
Realizzò allestimenti unanimemente riconosciuti meritevoli di attenzione, ma di cui forse ancora non abbiamo capito appieno la rilevanza nella storia dell’architettura. L’ultimo, il più importante, il Salone d’Onore nel Palazzo dell’Arte, dove confluivano arte e architettura, non riuscì a vederlo realizzato. Dal racconto degli amici, pare che sapesse che non lo avrebbe mai visto in opera.
A rendere misteriosa la vita di Persico è la scarsità di fonti che la raccontano e le circostanze della morte. Ucciso dalla polizia fascista? Deceduto per un infarto? Perché fu trovato nudo, nella sua casa poverissima e fredda, con il fegato spappolato? Era un antifascista o un informatore della polizia pentito? Perché le sue carte sono scomparse, sequestrate da uno studioso che non si sa che fine abbia loro fatto fare? Sulla sua vita si potrebbe costruire un libro giallo, e difatti lo scrittore Andrea Camilleri lo ha fatto, con successo. Ma sollevando le obiezioni degli storici che nel ritratto del romanziere non riescono a riconoscere Edoardo Persico, un uomo dolcissimo e tristissimo, vissuto in povertà, religioso, forse omosessuale, con un fallimentare matrimonio alle spalle. Racconta Lisa, la figlia di Gio Ponti, che un senso di angoscia prendeva lei e la sorella bambine quando questo uomo, sempre avvolto nel suo cappotto, veniva a fare visita al padre e alla madre. Eppure, come raccontano gli amici, era oltremodo sincero, intransigente e disinteressato. “Una luce” ‒ ricorda Lionello Venturi ‒ “che non si è estinta né si estinguerà fino a che alcuno di noi, che ne fu illuminato, saprà conservarla dentro nell’animo”.
LA CRITICA
Di Persico, dicevamo, rimangono poche cose e tra loro diverse. A cominciare dai ritratti: quelli di Carlo Levi ce lo mostrano come un signore precocemente attempato, mite, con la bombetta, contraddetti da quello di Francesco Menzio che ce lo restituisce con i baffi, più magro e giovanile, e da quelli sul letto di morte eseguiti da Fiorenzo Tomea e da Gabriele Mucchi, che sembrano ritrarre un’altra persona. D’altronde, anche dalle poche foto che abbiamo di lui, tra le quali una da artista maledetto con i baffi e i capelli lunghi e una da borghese, ben rasato, stempiato e intabarrato con l’inseparabile cappotto secondo il racconto di Lisa Ponti, è difficile farci una precisa idea del suo aspetto, come se la stessa fisionomia fosse in linea con il carattere fuggitivo della sua esistenza.
Nonostante i pochi scritti di architettura lasciatici, non esiterei a definire Persico il più importante critico italiano d’architettura del Novecento. Per le intuizioni e, soprattutto, per la costruzione concettuale che parte da una intuizione di quel Lionello Venturi, personaggio rivoluzionario della critica d’arte, di cui abbiamo poco prima riportato una citazione. L’intuizione è che l’arte moderna nasce non dall’astrazione del Cubismo, ma dal senso di coinvolgimento dell’uomo con la natura che è proprio della visone impressionista. In questo senso l’Impressionismo è stato la più rilevante rivoluzione della tecnica sviluppatasi in parallelo a un tentativo di espressione della nostra modernità che alla separazione tra uomo e mondo contrappone la reintegrazione.
Era una visione che aveva, negli anni del fascismo, una potente carica eversiva. Voleva infatti dire abbandonare le velleità superomistiche e fare a meno della retorica monumentale, dei riferimenti alti, assoluti e perenni alla Storia. Riportare l’attenzione poetica alla vita nel suo darsi. Elogiare la modestia che avrebbe dovuto rappresentare al meglio l’etica di una nuova Europa, vagheggiata dagli intellettuali più sensibili, ma che stava andando a pezzi per colpa di totalitarismi di ogni colore. In Venturi, pensiero e politica coincidevano. E difatti fu uno dei pochissimi professori universitari che non giurò fedeltà al fascismo e scelse la via dell’esilio.
Da critico d’arte, Persico abbracciò con entusiasmo l’idea impressionista di Venturi. Organizzò nel 1929 una mostra di artisti che avevano intimamente assimilato la pittura di luce: Jessie Boswell, Gigi Chessa, Nicola Galante, Carlo Levi, Francesco Menzio, Enrico Paulucci.
Erano sei, esattamente come sei erano i pittori che avevano inaugurato nel 1922 il movimento opposto del Novecento che puntava, invece, al ritorno all’ordine e al rigore classico delle forme. Persico fece un importante lavoro di gallerista, individuando altri talenti poco inclini alla retorica. E capì la grandezza incontrastata di Lucio Fontana, al quale dedicherà uno dei suoi ultimi scritti. Soprattutto ‒ ed è qui l’importanza del personaggio ‒ intuì che doveva sviluppare nella critica d’architettura il pensiero di Venturi, smontando l’equivoco cubista e razionalista. Per porre fine all’architettura pensata come una combinazione, per quanto colta, di figure geometriche, che produceva, da un lato, forme morte e, dall’altro, un arido classicismo.
A testimoniarlo sono tutti i suoi scritti e, in particolare, il testo della conferenza più importante, Profezia dell’architettura, tenuta la sera del 21 gennaio 1935 presso la Società Pro Cultura Femminile dell’Istituto Fascista di Cultura a Torino. Come ci racconta Giulia Veronesi, Persico vi traccia le linee essenziali di una storia dell’architettura moderna che si proponeva di scrivere ma che non scriverà mai perché di lì a poco meno di un anno, il 10 gennaio 1936, sarà trovato morto.
UN PROGETTO DI LIBERTÀ
Per capire l’architettura contemporanea, affermerà Persico, occorre fare riferimento a un progetto di libertà. E, per raccontarlo, rievoca Elsie, la protagonista di una novella di Sherwood Anderson: “Elsie corse nell’immensità dei campi, gonfia di un unico desiderio. Voleva evadere dalla sua vita per entrare in una vita nuova e più dolce, ch’ella presentiva nascosta in qualche angolo dei campi”.
Vi rendete conto del potere dell’immagine? L’architettura moderna, d’ora in poi, non può essere liquidata come una ricerca di funzioni, di standard, di giochi sapienti. È di più: è un sogno che suggerisce una esistenza diversa. Una “sostanza di cose sperate”, come dirà alla fine della conferenza utilizzando un’immagine diventata celebre, entrata di forza nel nostro immaginario, anche se ancora forse non ne abbiamo compreso l’intera portata.
Chi è l’architetto che ha dato maggiore intensità all’intuizione impressionista? Certo non Le Corbusier. Ma Frank Lloyd Wright il quale, secondo Persico, può essere considerato il Cézanne dell’architettura nuova. Intuizione che sposta il nostro asse concettuale verso una dimensione organica e paesaggistica straordinariamente contemporanea.
Mai, prima di Persico, un critico ha avuto una visione così ampia dell’architettura, e basterebbe il solo testo Profezia dell’architettura per rendercelo indimenticabile e amato.
L’architettura può essere, infatti, poesia solo se racconta, precostituendolo, il futuro: un nuovo ordine morale, un tentativo di organizzazione moderna dell’Europa, attraverso la scoperta della libertà dello spirito.
Parole così alte corrono il rischio di rimanere un puro esercizio di critica, astratto dalle opere che Persico stesso ha costruito: oltretutto dei suoi allestimenti abbiamo scarsa documentazione e in questi si tende a sottovalutare il suo contributo, considerandoli come risultato di collaborazione con progettisti più strutturati quali Marcello Nizzoli e Giancarlo Palanti.
Sarebbe invece importante cercare di capire come l’idea impressionista dello spazio, la ricerca di libertà si sia concretizzata in due opere: il negozio Parker in Largo Margherita a Milano (1934) e la Sala delle Medaglie d’Oro alla mostra dell’Aeronautica Italiana a Milano del 1934.
Dove lo spazio trasparente è ritmato da strutture leggerissime che volano nell’aria, suggerendo pluralità di direzioni e apertura di improvvisi orizzonti. Esattamente l’opposto dell’architettura giocata sulla geometria e sulla massa del fascismo.
Vi è una terza opera. È il capolavoro più rilevante: il Salone d’Onore nel Palazzo dell’Arte alla VI Triennale di Milano, un sacello ospitante la Nike scolpita da Lucio Fontana. Il ricordo classico diventa leggero, grazie ai setti in stoffa generosamente spaziati e alle vibrazioni luministiche generate e riflesse dalla statua, che diventa parte dell’architettura (così come, d’altronde, questa diventa parte della scultura). Da consumato architetto, Persico capisce che è proprio il talento sconfinato di Lucio Fontana il sostegno poetico su cui realizzare una indimenticabile architettura. L’insieme ricorda ‒ sia pure trasposto su un versante mitologico ‒ proprio la corsa di Elsie evocata in Profezia dell’architettura. Ogni costruzione ha un senso solo se vive, e può farlo solo se racconta, con maestria impressionista, l’immensità di una vita gonfia di desiderio.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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