My Way. Un dialogo con Fabio Sargentini al Premio Pascali
Parola a uno dei galleristi chiave nell’epopea dell’arte italiana recente, cui la Fondazione Pino Pascali ha dedicato il premio in onore dell’artista scomparso nel 1968.
Un grande esercito, pacifico. Potremmo definire così l’installazione My Way, messa in piedi da Fabio Sargentini (Roma, 1939) a Polignano a Mare nella Fondazione Pascali, che gli ha dedicato il premio intitolato al grandissimo genio sostenuto dal gallerista romano, anche oggi a distanza di cinquant’anni dalla sua morte. Ed è nella grande sala del museo che abbiamo incontrato Sargentini per una chiacchierata su questo nuovo progetto autoriale.
Fabio, qui ci sono tutti i tuoi compagni di strada: ovviamente Pascali, poi Kounellis, De Dominicis, Simone Forti, Mario Merz e Robert Smithson. E poi ci sei tu, l’unico a colori.
È del 1976 quella foto, le altre sono del 1968, 1969, 1970. Abbiamo fatto un po’ di acrobazie per trovarle, le abbiamo recuperate dall’archivio. Guarda Pino come è venuto bene!
Questa mia immagine è stata ripresa da una fotografia scattata sul Tevere [nella celebre performance de L’Attico, N. d. R.], stavamo partendo dall’Isola Tiberina, c’erano tutti, tranne Pino ovviamente. Gino, Gianni, Vittorio Rubiu, una barca di amici sul Tevere, qualche mese dopo aver allagato L’Attico. Dall’acqua immobile all’acqua mobile del fiume, quindi.
Hai seguito le prime edizioni del Premio Pascali a Bari voluto da Argan, Bucarelli e della famiglia dell’artista all’indomani della sua morte?
No.
E oggi come ti senti? Tra un’ora riceverai il premio dedicato al tuo più grande amico.
Quando me l’hanno detto sono rimasto indifferente, anche se ovviamente mi ha fatto molto piacere, è chiaro. Ma è come se lo avessi già ricevuto in tutti questi anni.
Io poi sono legato a Polignano, abbiamo cominciato con Ritorno al Mare, tantissimi anni fa, con la direttrice del museo Rosalba Branà. Sono venuto spesso qui per Pino e la sua memoria.
Cosa si può fare oggi per valorizzare ulteriormente Pino Pascali nel contesto internazionale?
Vedremo. Questa mostra è nata dopo il progetto in galleria a Roma, L’Attico dentro L’Attico, dove ho esposto le gigantografie delle mie mostre più importanti, che sono esposte anche qui.
Io ho sempre fatto delle operazioni inclusive, anche se chiaramente ho sempre valorizzato me stesso e il mio lavoro. Ma ho sempre aperto agli altri. E poi se non ci fossero stati loro, gli artisti, che facevo? Era lo spazio a suggerire i contenuti agli artisti, lo spazio diventava protagonista.
Raccontami un aneddoto per ogni fotografia qui presente. Partiamo dallo Zodiaco di De Dominicis.
È un grande tableaux vivant.
Come fu accolta questa mostra?
Articoli nazionali, fece molto scalpore. Veniva come conseguenza dei cavalli di Kounellis.
C’è l’elemento vivo degli animali, che Gino ha preso da Jannis.
L’ha mai riconosciuto?
Ma, guarda…
Una volta mi hai detto che Kounellis, all’arrivo di De Dominicis in galleria, ti disse “Scegli, o me o lui”.
Tra me e Kounellis non c’è mai stata quell’empatia che ho avuto con Pascali.
Perché?
A me piacciono le persone calde, Kounellis era anaffettivo, non riuscivo a stabilire un contatto, non riuscivo a far breccia nel suo cuore e lui nel mio. Con le persone così fredde non riesco a lavorare. Kounellis era freddo. Gino invece era ironico, beffardo, il rapporto è stato grosso. Jannis mi ha chiesto la testa di Gino e io non gliela potevo dare.
Pino è stato presente anche se non c’era, anche per gli artisti che venivano a L’Attico.
E come la avvertivano questa presenza?
Era come una misura, eccolo là, il massimo è stato lui. Anche perché quel mare bianco che è esposto qui con la gigantografia ha portato al Garage.
Un aneddoto sui cavalli di Kounellis…
Che ti posso dire? A distanza di cinquant’anni non posso dire delle cose nuovissime. Ho detto molte volte che i cavalli li ha trovati in galleria, li ho scelti io. Lui aveva una strizza incredibile, d’altra parte era una mostra rischiosissima.
Quanti giorni sono stati lì dentro?
Tre giorni, sempre tre giorni. Uno era poco, due… e tre.
Venne molta gente?
Trenta persone, tu lo sai, c’era l’uragano su Roma. Ora è morta una signora che era all’inaugurazione, commemorata con un necrologio sul Messaggero, e c’era scritto che era presente quella sera. C’erano anche Cesare Brandi e altri pochi quella sera.
Questa mostra di Polignano si apre con la gigantografia de L’Attico di via Beccaria allagato.
Il mare bianco di Pino mi ha ispirato la nascita del garage e il mare con l’acqua vera mi ha ispirato l’allagamento. I due mari sono stati un’ispirazione molto forte, potente.
E di Merz cosa mi dici? L’hai vista la mostra in corso all’HangarBicocca?
Non ancora. Qui ho messo questa immagine con l’opera Che fare?, che è il pezzo fondamentale del suo lavoro. Guarda come è forte ancora…
Che rapporti hai avuto con lui?
Dopo ho sostenuto la moglie, Marisa.
Hai portato Marisa Merz all’Attico di via del Paradiso.
Marisa aveva delle qualità, ma sai, le coppie di artisti… Mi ricordo l’immagine di lui che la trascina su un ponte a Roma per i capelli. E poi li vedevi a braccetto dopo cinque minuti.
Come mai non avete più lavorato insieme, tu e Merz?
Lui era nell’ottica torinese.
Su Mattiacci cosa mi racconti?
Pino ha molto caldeggiato affinché prendessi Mattiacci.
A marzo apri una nuova mostra, molto autoriale, nella tua galleria.
È lo spazio che comanda, è lui che ti suggerisce le cose. Te l’ho detto, mi è crollato il soffitto, è emerso un lembo di pittura e la prossima mostra si terrà proprio nella stanza accidentata.
Di Pascali hai ancora opere?
La bomba con il bigliettino. Ho centellinato le opere di Pascali, le ho anche piazzate bene, sono riuscito a piazzare il ponte al MoMA! Per Pino è stato importante.
‒ Lorenzo Madaro
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