Memorie di strada. L’editoriale di Marcello Faletra
In uno scenario internazionale sempre più minacciato da odio e nazionalismi, la memoria storica e il senso critico devono rimanere desti. Lo sa bene Gunter Demnig, che da oltre vent’anni segnala con le sue “pietre d’inciampo” i luoghi colpiti dalla ferocia nazista.
Venti Stolperstein dell’artista tedesco Gunter Demnig sono state divelte il 9 dicembre a Roma. Nella piccola città di Halle (Germania) dieci anni fa ne sono state divelte otto. Negli stessi anni a Monaco l’amministrazione ha proibito la posa delle Stolperstein. Gli esempi abbondano. Da oltre vent’anni Demnig lavora in molte città europee a segnalare, con le sue “pietre d’inciampo”, i luoghi dove la ferocia nazista si è scatenata. Le pietre d’inciampo – tasselli di cemento con una lamina d’ottone con inciso il nome, data di nascita e di morte del deportato – punteggiano i marciapiedi delle città europee, indicano i luoghi dove hanno abitato ebrei, ma anche sinti e rom, preceduti dalla scritta “qui visse”. Restituiscono un nome a coloro che erano solo un numero nei lager nazisti. Che fare, calpestarle? Camminarci sopra come una superficie qualsiasi? Eppure si espongono a questo accidente.
Coloro che hanno divelto le pietre sono incoraggiati dall’aria che si respira da tempo: in un mondo sempre più razzista e immateriale (che rende la prova storica invisibile e dunque opinabile), un mondo dove bisogna sempre dare prova della propria esistenza o dell’orrore subìto, occorre ancora dimostrare che la Shoah è esistita. Ad ogni modo dobbiamo tenere conto di un fatto: la memoria non si può insegnare. Se ne può solo testimoniare. Come ricorda Jean Améry, “nei campi di sterminio non vi è spazio per la morte nella sua forma letteraria, filosofica, musicale”. “Che cosa saprà il mondo di noi se vincono i tedeschi!”, scriveva Tadeusz Borowski. E prosegue in un altro racconto: “Ti ricordi quanto amavo Platone? Ora so che sono tutte bugie… Perché le cose terrene non rispecchiano alcun ideale”. Il propagarsi dell’insulto contro gli ebrei, la deliberata offesa antisemita, disegna un paesaggio nel quale “essere ottimisti è da criminali”, come recita una battuta di Ernst Fisher.
“In un mondo sempre più razzista, un mondo dove bisogna sempre dare prova della propria esistenza o dell’orrore subìto, occorre ancora dimostrare che la Shoah è esistita”.
Per certi aspetti queste targhette d’ottone agiscono secondo una retorica podistica: sono un dispositivo di potenziale incarnazione della memoria. Acquisiscono un diritto sulla storia presente. Esposte al calpestio e all’imbecillità di razzisti e antisemiti, le Stolperstein suggeriscono che i luoghi dell’orrore procedono lentamente. Passo per passo. Fino all’eliminazione totale. Quel tassello, come la parola, diventa un punto praticato della violenza razzista. Sborda dai confini estetici e artistici. È un fuori che segna la legge del luogo: qui visse ecc. Segnalando un’assenza per sterminio, aggiungono un nome. Nomi e date rivelano che ieri e oggi non sono nulla di fronte al terrore accumulato. L’opera di Demnig forse è destinata a restare incompiuta. Si compirà quando sarà posto l’ultimo tassello: la seimilionesima pietra. Oppure continuerà a essere senza tempo. Testimoniando di tutte le morti di esseri deliberatamente affamati, torturati e assassinati, di cui siamo contemporanei.
‒ Marcello Faletra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #47
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