Pittura lingua viva. Parola a Giulio Saverio Rossi
Viva, morta o X? Venticinquesimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Giulio Saverio Rossi (Massa 1988; vive a Torino) ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Venezia, all’Accademia Albertina di Torino e al Bisonte di Firenze. Fra le mostre personali: Ogni cosa rappresa, CAR DRDE, Bologna, 2018; Bordi/Borders/Bords #1, K+D, Torino, 2018; No Subject, LOCALEDUE, Bologna, 2017; THAUMÀZEIN, Castello Malaspina di Massa, Massa; 2015. Fra le mostre collettive: Fragile, SocieÏteÏ Interludio, Torino, 2018; Selvatico 13, Palazzo Pezzi, Cotignola, 2018; The Malpighian Layer, CAR DRDE, Bologna, 2018; Stupido come un pittore #2, Villa Vertua Masolo, Nova Milanese, 2018; Sulla Pittura: Cingolani, Galliano, Pinelli, Rossi, Spaziosiena, Siena, 2018; Viva Arte Viva, FuturDome, Milano, 2017; Monumento in Quattro Movimenti, Galleria Frittelli, Firenze, 2016; PILLS, Associazione Barriera, Torino, 2016. Ha esposto presso centri di ricerca del contemporaneo fra cui PAV ‒Parco Arte Vivente, Torino, 2017; Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato, 2015; Castello di Rivoli, 2008. È stato selezionato per partecipare a diversi programmi di residenza fra cui Landina, Verbano-Cusio-Ossola, 2018; VIR Viafarini-in-Residence, Milano, 2017; Mediterranean Landscapes, promosso da BJCEM e presentato a Mediterranea 18 Biennale dei giovani artisti del Mediterraneo, Tirana, 2017; C.A.R.S., Omegna, 2017, e SAC Fondazione Museo Pino Pascali, Polignano a Mare, 2015.
Come ti sei avvicinato alla pittura?
Mi ricordo di due libri che da bambino avevo sempre in mano. Uno era una pubblicazione su Leonardo, l’altro era una raccolta di miti greci con delle illustrazioni. Guardo a loro come la mia prima palestra visiva e li trovo particolarmente calzanti. Un libro mi proponeva delle immagini autonome e mistiche, l’altro presentava delle immagini quasi didascaliche in riferimento al racconto mitologico. Una felice commistione fra esoterico ed essoterico. Sull’avvicinamento al medium non so darmi neppure io una spiegazione autentica. Mi capita dopo aver realizzato un lavoro di domandarmi: “Ho fatto di nuovo un altro quadro?”. Questa domanda è dettata dalla sorpresa della pittura, una sorpresa che è tale proprio perché non ne ho mai fatto una prassi di routine. Credo che non si scelga di avvicinarsi alla pittura, piuttosto si sceglie di non discostarsene, e non ci si discosta da essa finché se ne rimane sorpresi.
Chi sono i maestri o gli artisti cui guardi?
Mi interessano molti artisti, soprattutto quelli che non conosco ancora. A volte mi interrogo anche su quelli del futuro. Che faranno?
Come scegli i soggetti delle tue composizioni? La memoria, il ricordo che ruolo svolgono?
Il mio punto di partenza non è l’immagine ma la relazione che posso costruire fra immagine e medium. “Comporre” indica, etimologicamente, il mettere insieme cose diverse. Queste “cose” non sono solo elementi all’interno della cornice semantica della pittura, ma sono un contrasto che si svolge in primo luogo fra la pittura e l’immagine.
La memoria e il ricordo m’interessano nella misura in cui si possono ricondurre alla soggettività, che nella pittura si esplica sia nel punto di vista, che nella manualità. La soggettività in quanto tale è il soggetto di alcuni miei lavori, come nella mostra personale No Subject (2017) da LOCALEDUE, a cura di Carolina Gestri.
Come era articolato questo progetto?
Il progetto si articolava in cinque tele tutte della stessa dimensione con un rapporto base/altezza di 16:9. Al centro dello spazio tre panchine di legno verniciate con della terra d’ombra bruciata disegnavano un’asse nell’ambiente espositivo. L’opera articolava la soggettività in due modalità differenti: la prima, tramite le panchine che suggerivano una gestione del corpo dello spettatore e quindi un’imposizione della veduta sui lavori, la seconda, tramite la virtualità presentata nei dipinti a olio. Ogni immagine rappresentava un paesaggio in soggettiva estrapolato da un video di un ambiente digitale. Il video era un campione in cui si mostravano degli scenari possibili per un videogioco, ma ancora scollati da qualsiasi successiva narrazione. Questo video mi ha colpito per diversi motivi. Per primo il fatto che nei videogiochi lo spazio si costruisca ancora con la prospettiva lineare, un elemento culturalmente rifiutato dalla pittura stessa, in seconda battuta il fatto che il video proponeva la veduta in soggettiva di un soggetto nullo, un carattere fittizio non ancora associato a questa veduta.
Cosa significa rappresentare un paesaggio oggi?
Il paesaggio è il modo in cui ci relazioniamo visivamente al mondo circostante, ma anche il nostro modo di agire l’ambiente. Rappresentare il paesaggio significa avere a che fare non solo con una macro categoria della storia dell’arte, ma con un medium in sé, in cui siamo a nostra volta coinvolti. Nella mia ricerca il paesaggio si pone come elemento cardine di una decostruzione verso le immagini digitali, specialmente verso le mappature satellitari, ma anche come punto di connessione con il Romanticismo. Come li ha definiti Bruno Barsanti, si tratta di “paesaggi di ritorno”, di “feedback landscape”. In qualche modo sto lavorando per ricondurre, in seno alla pittura, il paesaggio che è fuoriuscito per declinarsi nel digitale. Ciò che però riconduco “a casa”, alla pittura, è un paesaggio non più decifrabile in quanto tale e che controverte tutti i parametri dell’immagine di partenza. Si tratta di paesaggi minimi, in cui la leggibilità dell’immagine si colloca a un passo dal grado zero, dal nero.
Lavori in studio? L’osservazione dal vero ha una funzione nella creazione delle tue opere? E la fotografia o il digitale?
Lavoro esclusivamente in studio, ma le migliori intuizioni le ho sempre avute fuori da questo. Alterno periodi di giornate di lavoro intenso a lunghi momenti in cui non entro in studio neppure per sbaglio per giorni o settimane. Talvolta mi sorprendo a camminare nella via del mio studio guardando solo le vetrate dall’esterno. La sorgente dei miei lavori è quasi sempre un’immagine digitale, ma costruisco prima completamente in astratto un’idea su che cosa il lavoro dovrebbe essere, poi inizio a cercare le immagini che mi servono.
Figurazione e astrazione: quando finisce una e inizia l’altra?
“Ogni granello di sabbia, ogni pietra della terra, ogni roccia e ogni collina, ogni fontana e ruscello, ogni erba e ogni albero. Montagne, colli, terra e mare, nuvola, meteora, e stella sono uomini visti da lontano”: è un brano di William Blake. Penso che il limite fra astrazione e figurazione abbia a che fare con questa distanza, col punto di vista da cui guardiamo le cose.
Realtà e rappresentazione. Come si rapportano tra loro nelle tue opere?
La rappresentazione è sempre un raddoppio simbolico. Una rielaborazione per segni e simboli di una realtà che, in quanto tale, non ci è mai data. L’arte compensa questa cecità creando modelli che implementano il mondo, idealizzandolo e saturandolo di senso. Nella mia serie Fluidi – dopo Worthington (2018) ho lavorato sullo scarto fra modello ideale e realtà fisica della materia. L’opera è nata confrontandomi con The Splash of a Drop (1895), un testo del fisico inglese Arthur Mason Worthington. Il libro nasceva inizialmente come resoconto visivo di uno studio sulla caduta dei fluidi. Il movimento della caduta era però così rapido che il professore dovette ricorrere alla cronofotografia. Qualcosa però nella riproduzione fotografica non lo convinse del tutto e decise di implementare le foto così ottenute con una serie di disegni che rappresentassero lo stesso soggetto di una goccia che cade. Ne derivò così un libro che se da un lato aveva come oggetto la fluidodinamica, dall’altro poneva al centro una domanda epistemologica sulla conoscibilità dei fenomeni a partire dalla comparazione di disegni (ideali e soggettivi) e fotografie (reali e oggettive) cui il fisico rispose postulando una condizione di Auto Splash: “The mind of the observer is filled with an ideal splash – an Auto Splash – whose perfection may never be actually realized”.
E nello specifico nel tuo lavoro come si è tradotto tutto questo?
Nel mio lavoro ho invertito i termini di questo paradigma assegnando a delle immagini di simulazione di liquidi, costruite con un programma di modellazione 3D, la valenza idealistica, e al contrario alla pittura la valenza realistica e oggettiva. La pittura in questo lavoro diventa una rappresentazione incarnata in cui la “realtà” dei pigmenti, cioè la loro composizione chimica, nega sia l’idealità della forma che la referenzialità all’immagine rappresentata. La serie è infatti realizzata con due pigmenti, ossido di ferro rosso e violetto di cobalto, che innestano un processo di ossidazione e quindi di dissoluzione dell’immagine. Si tratta di una rappresentazione negata dalla realtà della materia.
La tua personale da CAR DRDE a Bologna si intitola Ogni cosa rappresa. Come è sviluppata? Che opere presenti?
La mostra si articola nell’arco di cinque lavori, concepiti per la galleria CAR DRDE a Bologna, che sviluppano una narrazione a partire dal gesso di Bologna: un minerale che lega paesaggio e tradizione pittorica.
Ho costruito un insieme organico basato sull’interdipendenza dei lavori. Al centro della mostra si colloca Gipsoteca –selenite (2018), l’unico quadro realistico dell’intero progetto, che rappresenta un pezzo di selenite estratto dalla vena del gesso romagnola. Per via transitiva da questa immagine si generano tutte le altre in mostra, che in qualche misura funzionano come delle altre possibili e infinite traduzioni dello stesso oggetto, fino a una dissoluzione del reale per via della materialità di cui sono fatti i lavori.
Si declina quindi in una duplice narrazione…
Sì. I due quadri frontali, realizzati a olio, presentano il gesso solo per immagine (nel primo nella forma della selenite, nel secondo, Gipsoteca – polvere, in forma di pigmento). Gli altri lavori, invece, portano il gesso sulla superficie della tela, spostandolo dal suo ruolo mediano di imprimitura della tela e tramutandolo in un elemento che impedisce l’emergere dell’immagine. In Subversione – Friedrich lo strato dell’imprimitura ricopre una copia di Das Eismeer (1823) di Caspar David Friedrich eseguito a tempera sulla tela, mentre nelle due tele Ogni cosa rappresa la presenza del gesso, assieme al bianco d’ossa, impedisce alla punta d’argento di far emergere il disegno di un gruppo di cristalli nati dal campionamento visivo della texture del pezzo di selenite iniziale. Sono molto attratto dall’idea che un lavoro ne generi un altro e che la mostra si sviluppi non solo nei singoli lavori ma nello spazio di questa traslazione da opera a opera.
Hai affermato: “Se dovessi circoscrivere l’essenza della mia ricerca a un unico attributo, questo sarebbe l’inattuale”. Cosa è, dunque, l’inattuale per te?
Intendo l’inattuale (o l’intempestivo) nel senso più profondo in cui questo è stato usato da Nietzsche e poi ripreso da Agamben, fino alle considerazioni più recenti sulla contemporaneità per esempio di Knut Ebeling in There Is No Now: An Archaeology of Contemporaneity. Inattuale è ciò che, riproponendo modelli storicamente sorpassati (ma non esauriti), apre alla possibilità di un ritorno delle cose: immagini, tecniche e costruzioni di senso. La pittura ha esaurito il suo compito storico e ciò pone la condizione del medium in una non coincidenza col tempo presente. A partire da questo dislocamento, dal suo differire, la pittura è oggi un linguaggio di un’alterità visiva rispetto alla tecnologia visuale dominante e da questa posizione di difetto può essere ripensata come alternativa.
Parli tanto del medium. E a proposito della tua pratica sostieni che il suo inizio risiede nella messa in scena critica dei medium tradizionali e la sua fine ideale eà nel mostrare la possibilitaà di usare questi stessi medium all’interno di una narrazione piuà grande.
Si dipinge in maniera implicita o in maniera critica. La maniera implicita è quella per cui la pittura è semplicemente possibile perché i pittori la fanno. La pittura diventa così un medium benaccetto e legittimato nella contemporaneità, in cui ciò che conta sono i valori cromatici e compositivi al suo interno. Il modo critico, in cui mi riconosco, è quello per cui la pittura afferma la sua stessa legittimità, all’interno della contemporaneità, in ogni singola opera. Questa modalità critica necessita di essere ricollocata all’interno di una narrazione più vasta che oltrepassa il puro dato visivo di ciò che troviamo sul quadro. A un significante possono corrispondere molti significati a seconda del suo collocamento all’interno di una griglia narrativa.
Un lavoro che reputo molto significativo per introdurre la tua pratica e poetica è Tentativo n. 1, 2, 3 di dipingere quello che vedo con gli occhi chiusi del 2016. Ce lo vuoi raccontare?
Questo lavoro può essere l’esempio perfetto per quanto intendevo con griglia narrativa. Si tratta di un trittico realizzato a olio. Ogni pezzo presenta un modo differente di raggiungere un’idea di nero, ottenuto direttamente sulla tela per stratificazione dei colori primari – rosso, giallo e blu – che vengono stesi in modo da creare tre combinazioni differenti. Il titolo introduce a una lettura del lavoro che partecipa dell’opera, il nero delle tele si rivela essere così la rappresentazione di un modello invisibile: la visione a occhi chiusi. Quando vediamo il nero non si tratta di una mancanza visiva, ma di una produzione delle nostre cellule. La pittura indaga in questo lavoro una sottonarrazione della visibilità che è sempre inframmezzata dal nostro chiudere gli occhi durante la giornata. Il trittico, variando le tonalità di questo nero ideale, presenta tre condizioni di visioni a occhi chiusi, in risposta a luci differenti nell’ambiente circostante.
Come nasce, invece, Riscrivere un albero del 2017?
Questo lavoro è nato per la collettiva Teatrum Botanicum (2017) al PAV di Torino. Per la mostra ho voluto lavorare sulla caratteristica principale del PAV in quanto struttura espositiva caratterizzata da un interno e da un esterno e come luogo privilegiato di riflessione sul rapporto fra arte e natura. Ho concepito due lavori: uno per lo spazio espositivo al chiuso e uno per il grande parco che circonda la struttura. Riscrivere un albero si collocava all’esterno e consisteva nel ridisegnare, con una matita di grafite, la porzione centrale di un tronco di un albero. In questo lavoro disegnare e riscrivere coincidevano: la descrizione dell’albero avveniva sul suo stesso corpo. L’opera parla dello sbilanciamento fra il gesto lungo e difficile, quasi votivo, di riscrivere tutta la superficie dell’albero di contro alla sua assoluta transitorietà (non essendo la grafite fissata in alcun modo).
La tua è una pittura veloce o lenta?
Non saprei… Dipende in base a cosa misuriamo il tempo e ogni quadro ha il suo. Per esempio, All this will be recollected in sixteen days è una serie di lavori a olio su tela, che si basa sugli errori delle fotografie satellitari, così come si possono trovare su Google Earth. Il satellite, nell’arco di sedici giorni, crea una nuova mappatura della Terra e può così sostituire gli errori commessi in precedenza. Il tempo del giro del satellite coincide con il tempo di esecuzione dell’opera. In altri casi, il tempo si estende ben oltre quello della realizzazione in studio, come in Earthless maps – the clouds, realizzato a punta d’argento. Il minerale si ossida nel tempo, acquisendo valore cromatico. Per questo tipo di lavori considero l’aria e il tempo dei coautori.
Perché far pittura oggi?
Si sceglie di fare arte o di non farla, ma non si può scegliere di fare pittura: è un modo di pensare e di tradurre il mondo. Se si pensa in pittura si dipinge, altrimenti no.
Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Non distinguo bene la situazione di una scena legata alla pittura da una scena dell’arte tout court. Penso ci siano molti bravi artisti che lavorano con la pittura, alcuni dei quali sono già apparsi su questa stessa rubrica. In Italia sembra che lo scenario dell’arte abbia riammesso la pittura fra le sue possibilità dopo averla guardata con sospetto per diverso tempo, mentre al di fuori dei nostri confini si è sempre portata avanti la pittura alla luce del sole. Questo “sospetto” ha comunque fatto bene alla pittura e l’ha rafforzata, ma non ha giovato ai giovani curatori e critici che, specialmente se non hanno un percorso legato alla storia dell’arte, si sono ritrovati a reintegrare la pittura nel loro glossario ma senza conoscerne la grammatica.
‒ Damiano Gullì
Pittura lingua viva #1 ‒ Gabriele Picco
Pittura lingua viva #2 ‒ Angelo Mosca
Pittura lingua viva #3 ‒ Gianluca Concialdi
Pittura lingua viva #4 – Michele Tocca
Pittura lingua viva #5 ‒ Lorenza Boisi
Pittura lingua viva#6 ‒ Patrizio Di Massimo
Pittura lingua viva#7 ‒ Fulvia Mendini
Pittura lingua viva#8 ‒ Valentina D’Amaro
Pittura lingua viva#9 ‒ Angelo Sarleti
Pittura lingua viva#10 ‒ Andrea Kvas
Pittura lingua viva#11 ‒ Giuliana Rosso
Pittura lingua viva#12 ‒ Marta Mancini
Pittura lingua viva #13 ‒ Francesco Lauretta
Pittura lingua viva #14 ‒ Gianluca Di Pasquale
Pittura lingua viva #15 ‒ Beatrice Meoni
Pittura lingua viva #16 ‒ Marta Sforni
Pittura lingua viva #17 ‒ Romina Bassu
Pittura lingua viva #18 ‒ Giulio Frigo
Pittura lingua viva #19 ‒ Vera Portatadino
Pittura lingua viva #20 ‒ Guglielmo Castelli
Pittura lingua viva #21 ‒ Riccardo Baruzzi
Pittura lingua viva #22 ‒ Gianni Politi
Pittura lingua viva #23 ‒ Sofia Silva
Pittura lingua viva #24 ‒ Thomas Berra
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati