Pittura lingua viva. Parola ad Alessandro Scarabello
Viva, morta o X? Ventiseiesimo (!) appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Alessandro Scarabello (Roma, 1979) vive e lavora tra Bruxelles e l’Italia. Ha conseguito il BFA presso l’Accademia di Belle Arti di Roma e il MFA presso la Royal Academy of Fine Arts (Kask) di Gand, esponendo in numerose istituzioni pubbliche e private tra cui il Royal Museums of Fine Arts at the Oldmasters Museum e l’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles, il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, Palazzo Collicola di Spoleto e Palazzo delle Esposizioni di Roma. Ha partecipato a diverse Biennali d’arte contemporanea tra cui la Bienal del fin del mundo in Sudamerica, la Biennale dei Paesi del Mediterraneo ad Alessandria d’Egitto, la Biennale di Tunisi e la Biennale dei giovani artisti di Monza.
Come ti sei avvicinato alla pittura?
Riconosco tre fasi importanti che mi hanno avvicinato alla pittura. La prima, per effetto. Dopo aver frequentato la quinta ginnasio del liceo classico, durante l’estate mi sono accorto di avere una certa inclinazione per il disegno e sono passato al liceo artistico, dove ho sviluppato curiosità e interesse verso il disegno, la pittura e la storia dell’arte in generale. La seconda, per apprendistato. Verso la fine del liceo, due soggiorni presso lo studio di un pittore amico di famiglia mi hanno permesso di fare “la scelta” e consolidare interesse e tecnica, nello specifico attraverso lo studio dell’Ottocento italiano: è stata una scuola molto solida. La terza fase, per allontanamento. Con uno stacco di molti anni dalle prime due, è stata la più importante. A un certo punto del mio percorso sono emerse delle problematiche, sicuramente legate a una mia maturità artistica ancora latente e in parte anche a un problema, molto diffuso in Italia e a Roma in particolare, di mancanza di sensibilità e lettura, da parte degli addetti ai lavori, verso la pittura, arte che molto ci appartiene ma che è stata sempre vista come non al passo con i tempi. Sono sicuro che molti artisti, come me, si sono posti a un certo punto il problema se continuare a dipingere oppure no, come se questo medium non fosse sufficiente a esprimere ciò che si voleva. La frustrazione è stata grande, tale da farmi decidere di ripartire da zero, scegliendo di allontanarmi da Roma e frequentare un master in arti visive in Belgio alla Royal Academy of Fine Arts (Kask) di Gand. Il risultato di questa esperienza ha avuto risvolti inaspettati, perché ho ritrovato una motivazione che non credevo più di avere, e questo ha permesso un salto di qualità notevole nel mio lavoro. La lontananza è stata determinante per fornire nuova linfa vitale al mio rapporto con la pittura.
Chi sono i maestri o gli artisti cui guardi?
Ne cito alcuni che hanno influenzato per diverse ragioni il mio percorso. Tra i maestri del passato ho guardato molto a Rosso Fiorentino, Dieric Bouts, Rogier Van der Weyden, Tintoretto, Merisi, Velázquez, Goya. Dall’Ottocento al Novecento in poi ho guardato a Pellizza da Volpedo, Michetti, Picasso, Hopper, Bacon, Boccioni, Scipione, De Pisis, Gino De Dominicis, Sidney Nolan. Guardo al lavoro di Yan Pey Ming, Dirk Braeckman, Pietro Roccasalva, Alessandro Pessoli, Folkert De Jong, Johan Grimonprez, Cecily Brown, Francis Upritchard.
Perché la scelta della figurazione?
In realtà ho smesso di marcare il confine tra figurazione e astrazione. L’una non esclude l’altra. Valicata una certa soglia, non ha più importanza, sono solo porte che si aprono, ma, dovendolo spiegare, direi che la figurazione provoca in me molte più domande, perché mi ricorda di essere “pensante”. La mia ricerca si è evoluta dando vita a un comportamento che ora mi fa oscillare tra figurazione e astrazione, enfatizzando talvolta la figura umana, talvolta forme che giocano con l’interpretazione del simbolo e dell’archetipo.
Nella tua prima mostra, dal titolo Strutture metropolitane, hai rappresentato cantieri edili e lavoratori, poi hai analizzato il potere partendo dalla metafora del pane nel ciclo Uppercrust e sei infine approdato al superamento di una pittura realista per creare nuovi mondi e immaginari, ma sempre intrisi di messaggi/riflessioni politico-sociali. Ci vuoi raccontare questi passaggi e come si è evoluto/trasformato negli anni il tuo lavoro?
Agli inizi avevo la convinzione che il mio lavoro dovesse essere strettamente collegato con l’esterno, volevo che l’opera contenesse il messaggio che avevo in mente di dare con i mezzi di cui disponevo e da qui la voglia di cimentarmi in modo più diretto con tematiche che avevo a cuore, quasi un bisogno di denuncia: alcune serie, come quella dei cantieri edili e dei lavoratori, ad esempio, hanno risentito di una certa intenzione “politico/sociale”. Poi, man mano, questo atteggiamento si è tramutato in altra cosa. Tutto cambia quando nel tragitto ci si accorge che si può parlare di politica anche attraverso un semplice drappeggio e la sfida diventa ancora più bella.
La serie Uppercrust, presentata nel 2011 a Roma presso The Gallery Apart, ha costituito un momento molto prolifico.
Ce ne parli?
Uppercrust è l’espressione con cui nelle società anglosassoni vengono indicati gli appartenenti alle leading classes. L’espressione richiama le forme di pane cotte un tempo nelle cucine delle dimore nobiliari, che presentavano un livello di cottura perfetto nella parte alta (uppercrust, appunto), destinata ai padroni, mentre la parte sottostante, bruciata, serviva a sfamare la servitù. Ho concepito 12 grandi tele raffiguranti ritratti di donne e uomini dipinti a grandezza naturale, in cui ho cercato di rendere l’altezzosa consapevolezza di appartenere a una élite che può guardare il mondo dall’alto verso il basso e a cui il resto dell’umanità guarda con invidia ma anche con voglia di condivisione. Ho allestito parte di queste tele a parallelepipedo, unite da cardini che consentono alla struttura di tenersi eretta, esattamente come le alleanze che sorreggono le élite e consentono ai loro membri di sostenersi l’un l’altro, ma al contempo il retro ha una struttura lignea che le sorregge, come una quinta teatrale che suggerisca l’idea di debolezza circa la reale sostanza che spesso si nasconde dietro il potere; l’idea di riferimento guardava ai Villaggi Potemkin, fatti costruire, secondo una storia forse non vera, in cartapesta dal Principe Potemkin per impressionare favorevolmente l’imperatrice Caterina II di Russia in visita ai territori sottratti all’Impero ottomano.
Sei passato dalla raffigurazione dell’uomo alla sua sostituzione con simulacri, fantocci, spaventapasseri, maschere… Cosa rappresenta per te la maschera? Da dove deriva il Phersu protagonista di una tua mostra del 2016?
Ho capito, guardandomi indietro, che i personaggi che caratterizzavano le mie prime serie dovevano in qualche maniera avere un riscatto sociale e apparivano in modo solido e forte in un contesto reale. Con il passare del tempo sono stato io il primo a mettermi in discussione come individuo e come artista e i miei personaggi hanno cominciato a mutare e a essere, di conseguenza, il riflesso delle mie considerazioni esistenziali legate all’identità. Questa ricerca sull’identità si è progressivamente focalizzata verso l’ambito della spersonalizzazione. The Garden of Phersu, presentata a Roma nel 2016 presso The Gallery Apart, è stato un tentativo di indagine su come l’individuo, a contatto con lo “spettacolo” e la cultura massificata, alteri se stesso per meglio adattarsi alla realtà, in modo da perseguire strategie, istintive e inconsapevoli, tese ad allontanare la paura atavica della morte. Strategie che spesso assumono connotazioni grottesche, evidenziando quanto la reazione dell’individuo alla contemporaneità possa risultare goffa, come lo sono i suoi comportamenti.
Come è nata quindi la figura dello spaventapasseri?
La figura dello spaventapasseri è nata come conseguenza di alcuni tentativi sulla tridimensionalità avvenuti mediante lo sfondamento della tela e la sovrapposizione di brandelli di pittura, attraverso delle stratificazioni. Questo mi ha dato l’impressione materiale di avvicinamento o allontanamento da ciò che è l’idea di “origine” e identità. Ho concepito questi lavori come dispositivi/maschere, aprendo una riflessione sul recupero di elementi che ho sempre sentito vivi ma aspettavano probabilmente di emergere in tutta evidenza: la teatralità, l’aspetto fittizio della messa in scena, la finzione che si carica del compito di sembrare vera, e, infine, la maschera come concetto universale, come dispositivo che innesca la trasformazione e la diversità. Questa trasformazione personale ha coinciso con il distacco da Roma, nel momento in cui mi sono trasferito in Belgio.
Ne è conseguita l’idea di lavorare sullo spaventapasseri come un contenitore vuoto, che del corpo umano ripropone posture e forme senza però i limiti imposti dalla realtà e dalla verosimiglianza, lasciando spazio alla deformazione e alla surrealtà. In questa serie i movimenti dei soggetti si estremizzano per un deficit di comunicazione verbale e si riducono fino all’immobilità per un eccesso di compensazione. Abitano come crisalidi scenari caratterizzati da fitta vegetazione, quasi a creare uno sconfinamento spaziale, come un set che continua a esistere oltrepassata la superficie del quadro.
E si arriva così a Phersu…
Ispirazione elettiva e immanente è stata la figura enigmatica di Phersu, un personaggio ritratto in affreschi dipinti su alcune tombe etrusche di Tarquinia, contraddistinto da elementi fisiognomici e posturali che ne rendono appieno la caratteristica di maschera, il cui nome è poi all’origine del latino “persona”. Sia Phersu sia lo spaventapasseri rappresentano figure in bilico tra la risata nevrotica e l’orrore, come molte maschere della Commedia dell’arte e della tradizione culturale italiana.
Teatralità, dicevi, ma anche enigma, mistero, e grottesco… Perché la scelta di questi elementi nella tua narrazione?
Perché penso siano gli elementi che caratterizzano e regolano da sempre la nostra cultura e presenza sociale, divise tra euforia del vivere e il timore del morire: l’unico modo di convivere con quest’ansia è convincersi che è possibile riderne. Penso che l’enigma esista per motivare l’individuo a risolverlo.
Realtà, finzione e rappresentazione come dialogano nei tuoi lavori?
Dialogano di pari passo, l’una non esiste se manca l’altra. Nel mio lavoro questi elementi sono in aperta e continua dialettica, soprattutto ora.
E la storia, il passato, il classico, il recupero di determinati miti e archetipi cosa rappresentano per te?
Rappresentano una consapevolezza accentuata dal cambiamento che è avvenuto con il trasferimento in Belgio. La lontananza da Roma me ne ha fatto riscoprire il suo valore. Teatro perpetuo e fonte inesauribile di immagini e suggestioni. Tutto quello che avevo sotto gli occhi, statue, ruderi, monumenti, ma anche il suo potere politico, la straordinaria intensità scenografica, cui prima non davo troppa attenzione, si è rivelato di colpo e mi ha fatto riscoprire una mia idea di Roma, più intima e desiderata. Ho avuto modo di spostare attenzione e sentimento su ciò che mi appartiene culturalmente in modo profondo e naturale, riscoprendo interesse verso il mito e le forme archetipiche insite nell’idea di classicità. Nascere a Roma è un privilegio pericoloso, poiché sviluppa insieme con un sentimento di appartenenza molto forte una altrettanto potente assuefazione all’esperienza quotidiana del bello in un tempo sospeso che interseca gli infiniti strati tra passato e presente. La bellezza può diventare ipnotica e abituarti a un’inerzia perpetua. Ma hai anche l’obbligo di dover andare oltre la semplice constatazione di vivere in una delle più belle città del mondo.
C’è ancora spazio per il ritratto?
Penso che poter guardare un ritratto sia un privilegio, e dipingerlo è l’unico modo di uscire dal flusso incessante dell’agire umano per guardarlo scorrere.
Come costruisci le tue composizioni? L’osservazione dal vero o la fotografia hanno un ruolo?
Sempre più spesso in modo casuale. Se comincio ad avere idee prestabilite, il risultato è quasi sempre deludente. Volutamente cerco di mantenere un atteggiamento mentale di stato confusionale, proprio per evitare che il pensiero assalga la parte istintiva. Non è semplice, ma in qualche modo le cose accadono. Difficilmente disegno per questo motivo. Un’idea o una suggestione su carta toglierebbe, disegnandola, carica e potere all’immagine su cui ho intenzione di lavorare. Guardare un’altra immagine come riferimento, invece, non mi fa questo effetto. Il più delle volte ho il computer aperto mentre dipingo, dove guardo immagini che seleziono di volta in volta come una pratica da un archivio. Ho quasi sempre dipinto su grandi dimensioni e una tela alla volta. Precedentemente seguivo più o meno una linea: iniziavo il più delle volte usando un supporto digitale per tracciarmi linee guida di immagini patchwork elaborate sul computer, per poi dipingere gradualmente ma senza una progressione rigida. Potevo, grosso modo, stabilire la durata di lavoro di un’opera. Ora non più, non ho idea del tempo necessario. Le opere ora convivono nello studio e le lavoro insieme. Il mio modo di lavorare è cambiato da quando ho cominciato a capire che i materiali si aiutano a vicenda nello studio, dando vita a un dialogo continuo dove un’opera cede all’altra ciò che non può avere. In questo scambio, infatti, alcuni elementi pittorici presenti nelle tele o parti strutturali dei telai stessi o strumenti in generale che hanno contribuito alla composizione dell’opera, si trasformano in sculture, proprio per un fatto di prossemica naturale. C’è molto di autobiografico in questo.
Quali sono le tue fonti di ispirazione? Letterarie, cinematografiche, musicali…
La musica mi è indispensabile. Oggi ho bisogno di più concentrazione e ascolto meno musica mentre lavoro, ma è costantemente presente nella mia mente in forma compositiva. Ho suonato in passato la batteria in una band trash metal e non ho mai abbandonato quell’attitudine radicale. Mi serve per lavorare. Le stesse sensazioni che ho provato sul palco le provo sempre di fronte alla tela. Traggo piacere e ispirazione dall’antropologia, ad esempio Todorov, Lévi-Strauss, dalla storia antica, mi appassiona la mitologia, libri d’arte in tutte le sue forme, naturalmente, di cui ho una buona collezione, ma anche biografie e attualità. Mi ha fortemente influenzato l’estetica dei film di Dario Argento. Sicuramente la produzione di Stanley Kubrick ha avuto un forte impatto. E la fantascienza nelle sue diverse sfaccettature.
Hai detto che per te è importante “arrivare allo stato crudo dell’anima dei soggetti”. Quanto conta in questo la tecnica? Hai supporti, tecniche o formati che prediligi?
Ho detto questo in una videointervista nel 2012, quando lavoravo alla serie di ritratti Uppercrust, e solo ora mi accorgo che in questa frase risiedeva ciò che ora penso sia più presente nelle mie opere. Cercavo di dire che per me è importante radicalizzare gli elementi di un’immagine (ritratto o altra cosa) portandola a una struttura essenziale, a una forma o un’atmosfera ridotta nella forma e nel colore, dove questi elementi rimangono a uno stato crudo, a un punto, cioè, dove i livelli delle sensazioni sono pronti per essere reinterpretati autonomamente da chi guarda affinché l’opera continui a vivere.
E il colore che ruolo ha?
È cambiato molto anche il mio rapporto con il colore. Ho sviluppato una specie di rigetto. Il rispetto che ne avevo ha finito col limitarmi in passato. Pur conoscendolo, per natura o per scelta mi ritrovo a sovvertire ogni volta cliché legati al suo utilizzo che possano racchiudermi o connotarmi nella parola “stile”. La mia pittura sta diventando non solo più gestuale, ma ridotta nelle forme e nel colore, come se avessi bisogno di distaccarmi da questi elementi per chiarire la mia visione e arrivare a una attitudine mentale/concettuale più che pittorica. Le tonalità di colore concorrono a una comprensione mentale piuttosto che estetica.
Perché fare pittura oggi?
Una volta ho buttato giù alcune frasi che riporto qui di seguito ed esemplificano la mia opinione al riguardo: “Dipingere è un istinto che lascia traccia attraverso le immagini, ed è essenziale come l’istinto di camminare. L’utilizzo di innumerevoli medium artistici è come l’utilizzo di innumerevoli mezzi di locomozione, nonostante tutto continuiamo a camminare”.
Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Ne penso molto bene. Di talento ce n’è in abbondanza. Ora gli artisti passano da soli i confini italiani mettendosi alla pari con un contesto internazionale secondo il loro intuito e capacità organizzativa, ma serve supporto in patria. Basta solo avere meno cautela da parte di chi cura, scrive o compra. La cautela verso questo medium è mancanza di fiducia verso chi lo pratica.
‒ Damiano Gullì
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