Governance e imprese culturali: questione di testa/e?
Quali caratteristiche devono avere i manager della cultura? E quale formazione?
Basta prendere in mano qualche statuto qua e là per l’Italia o intercettare i bandi passati (come quello per i super-direttori dei venti grandi musei statali) e recenti per rendersi conto che il modello di governance privilegiato nell’ambito della funzione direzionale è quello dell’uomo (con qualche new entry femminile negli ultimi anni) solo al comando, a cui si chiede di essere un/una manager. Nel frattempo, non solo gli statuti stanno correndo “ai ripari” chiedendo ai candidati competenze manageriali, ma anche le università e i corsi di formazione (più o meno alta). Eppure da molti si percepisce ancora una certa reticenza in merito, quasi un sospetto stante un’ibridazione apparentemente poco felice tra economia e cultura. Ma la parola ‘management’ viene dal latino manus: opera, azione, impresa, e deve quindi essere colta anche nella sua accezione attinente la conoscenza, poiché non vi è gestione delle risorse senza conoscenza.
Sic stantibus rebus, cosa c’è da temere? Se di innesti si ha da parlare, una robusta formazione umanistica può rappresentare una solida base per competenze manageriali, soprattutto alla luce del fatto che, per quanto sottodimensionato, un ente culturale avrà almeno un responsabile amministrativo interno o esterno di supporto. Laddove invece si punti sul profilo economico, l’ente dovrà valutare le collaborazioni curatoriali, e soprattutto culturali, necessarie. Il tutto mantenendo il modello monodirettivo. L’alternativa in discussione è un modello bicefalico: due direttori, di cui uno con competenze culturali e l’altro economico-finanziarie.
“Manager è la persona, adeguatamente formata, capace di gestire le risorse di un’impresa culturale”.
Difficile dire se vi sia un modello ideale: sono le persone a fare la differenza. Quello che preme sottolineare è l’aspetto sostanziale legato anche a una corretta interpretazione terminologica legata appunto al verbo ‘to manage’. Manager dunque non è necessariamente e strettamente colei o colui che ha una formazione economico-finanziaria. Manager è la persona, adeguatamente formata, capace di gestire le risorse di un’impresa culturale: che sono economiche e finanziarie, ma anche culturali, umane, patrimoniali, relazionali e reputazionali.
Al di là e prima dei modelli precostituiti che possono sovvenire dal mondo profit (si pensi alle aziende con amministratori delegati) e dal mondo pubblico (si pensi ai dipartimenti e ai policlinici), quello che conta è prendere coscienza del significato vero del termine ‘management’, per cui insieme al sapere e al saper fare vi è un saper essere che si accompagna a un sapere trasformativo e contestuale. È la visione d’insieme (non come tuttologia ma quale sguardo profondo e grandangolare sulle cose e sulle persone), la capacità di governare situazioni complesse semplificando piuttosto che riducendo (il riduzionismo è lo spettro da cui fuggire), la qualità delle relazioni interne, che rendono un’istituzione culturale ben gestita dalla sua posizione direttiva.
“Quello che oggi è urgente fare è avviare una riflessione sui modelli di governance coerenti per lo sviluppo delle imprese culturali”.
Un altro aspetto di cui tenere conto è la scala, da intendersi in termini dimensionali e di struttura, per cui per realtà micro è ipotizzabile raggiungere risultati di efficacia ed efficienza gestionale mettendo insieme enti diversi legandoli con forme più o meno vincolanti, simil-contratto di rete.
Quello che oggi è urgente fare, prima ancora di mettere mano alle modifiche statutarie (che peraltro si renderanno necessarie nel solco della riforma per gli enti del terzo settore) è avviare una riflessione sui modelli di governance coerenti per lo sviluppo delle imprese culturali. E accompagnare una formazione adeguata per la selezione di presenti e futuri direttori/direttrici, consapevoli che ci sono doti che difficilmente si possono apprendere.
‒ Irene Sanesi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #47
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