Una pittrice dell’ombra. Intervista a Elisa Montessori
Storica artista del panorama italiano, Elisa Montessori parla della sua pittura, ma anche dell’essere donna e della necessità di vivere il momento.
A partire da una visita all’interno della mostra Lungotevere da poco conclusa presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma, a cura di Anna Cestelli Guidi, Elisa Montessori ci regala visioni, suggestioni, aperture che arrivano incisive e sorprendentemente fresche.
La prima esposizione a vent’anni, ora che di anni ne ha ottantasette, l’artista scivola su un pianoforte di ricordi che non assumono mai toni nostalgici, ma riemergono con la forza e l’esuberanza del futuro. Segno e scrittura si identificano nella sua testa e sulla tela, complici di passaggi criptati in attesa di essere interpretati, di essere svelati.
“Elisa Montessori è un’artista che vive il mondo. Lo vive e lo guarda scavandone la superficie, traducendola attraverso una gamma di tratti che ci rivelano che ciò che ci si trova dinnanzi non è univoco, che un quadro racchiude sempre una domanda, aperto allo sguardo altrui, che vedere una cosa equivale sempre a trovarne un’altra.” (Ilaria Gianni, Ogni cosa è un’altra, 2016, galleria Monitor, Roma).
Parlando di spazio e di luce, di oscillazione e di tempo, di femminilità e di pittura, Elisa Montessori riflette sulla trasformazione straordinaria che stiamo vivendo in questo momento storico, connotato da un’accelerazione senza precedenti, in cui tutto nasce già desueto. A domanda, risposta: “Posso fare dunque un’opera stabile? Posso essere contemporanea? No! Io sono temporanea!”.
Da dove vogliamo cominciare?
L’inizio è lo spazio. Uno spazio, quello del Foyer Sinopoli, molto complicato. Uno spazio che ha una forza interna. Di passaggio. Un passaggio che è un muro. E ciò mi ha posto subito nella difficoltà di non poter adoperare dei colori, perché il colore sarebbe stato soffocato dal muro stesso. Allora ho preferito esercitare il muro contro muro.
La preparazione delle tele è, infatti, molto solida, sembra quella di un intonaco.
Sì, Davide [Ferri, N.d.R.] ne parla nel suo testo come di una pagina bianca. E su questo intonaco ho dipinto delle forme ispirate al fiume, qualcosa che corrispondesse alla città di Roma. Come in tante capitali d’Europa, il fiume rappresenta una vena continua, molto misteriosa. Ci sono dei fiumi di per sé vivibili e allegri, mentre il Tevere ha una forma minacciosa, segreta. Dove affiorano ricordi e oggetti. Che però tu osservi sempre dall’alto, perché quando scendi verso l’argine ti trovi a camminare spesso sul lato accosto al muro; l’acqua del Tevere è percepita come pericolo. E da questa storia, che mi sono un po’ inventata, ho tratto dei frammenti di ricordi, di passeggiate che si vedono affiorare sulle tele. Tanto è vero che alcuni fogli sono appesi con soli spilli, liberi al movimento del passaggio. Le tracce di colore in fondo sono esigue, però caratteristiche, perché portano fuori ancora una volta tutto e sullo stesso piano. Non c’è un dritto o un rovescio, in questi quadri si può entrare da tutte le parti. È una superficie. Roma è tutta così, continua e discontinua, tremenda e affascinante, predatrice.
Roma è l’immensamente grande e il minutamente piccolo, è Piranesi.
Esatto, è Piranesi! Ed è una forza che secondo me si può osservare soltanto in modo leggero, senza entrare in comunione con essa. Io sono un’osservatrice lontana.
A me piace sempre pensare che ci sia un’ambivalenza nei segni che faccio. In modo che l’interpretazione sia affidata in quel momento all’immaginazione del soggetto che guarda. Sono opere assolutamente aperte. L’elemento autobiografico è un piccolo sentiero che traccio all’interno, però l’interpretazione è lasciata libera. I quadri dedicati al Tevere sembrano anche molto facili, ma in realtà contengono dei segni che hanno un ritmo dentro, non sono eseguiti in maniera casuale.
Sebbene il caso rappresenti un elemento importante, come per quelle tecniche a lei care, ad esempio il monotipo, che non permettono una gestione completa e controllata del processo creativo.
Certo, perché si tratta di un disegno al contrario, un disegno che io non vedo, a occhi chiusi, occhi aperti/chiusi. Però tutto questo è regolato in me da una disciplina interna, ho una mano che gira molto più velocemente del mio pensiero. Sento un vuoto e lascio un vuoto quando mi serve, sento un pieno e faccio un pieno quando mi serve. E la mano va, va da sola.
Nel documentario, condotto da Davide Ferri e presentato a dicembre scorso, c’è un momento in cui lei si trova a battere i polpastrelli sul tavolo ricoperto di disegni, infondendo un ritmo sonoro alla sequenza. Che ruolo ha la musica nei suoi quadri?
Musica come cesura, come sincope, come attenzione che si focalizza da una parte e invece dall’altra è disdetta. C’è sempre una storia, ci vuole la pazienza di vederlo, ci vuole l’attenzione di chi legge, come un libro. La lettura richiede “tempo”. Non sono una persona che crea partendo da un punto, ma ne traccio sempre due, “connetto” una cosa con l’altra, dando origine a una catena di immagini.
Un quadro non è mai un singolo fotogramma, bensì una sequenza.
Esatto, è una sequenza e questo lo ripeto insistentemente nei libri, (ne faccio tanti). Il libro per me è uno spazio fortemente dinamico, perché voltando le pagine, guardando una cosa a destra e l’altra a sinistra, impieghi il tuo tempo. Perciò catturo, “rubo” il tuo tempo. Il mio è un vero e proprio furto, in senso positivo ovviamente. Ti rubo l’attenzione, perché senza di essa non c’è scambio. E non si tratta di uno scambio di bellezza e meraviglia, ma dello scambio in cui tu spettatore metti in gioco te stesso.
Noi siamo spesso abituati a una forma pubblicitaria di offerta, a un manifesto imposto in modo che l’osservatore filtri il messaggio secondo gli occhi dall’autore. Io invece metto a disposizione un avvio.
Ci sono dei simboli e degli elementi ricorrenti nei suoi dipinti. Ad esempio le “pantofole”. Le pantofole di Paribanu (delle Mille e una Notte), 2000, Fantasmi, 2011, Lungotevere #1, 2018. Una forma mantrica, il cui significato resta ambiguo.
Si tratta di un simbolo ambivalente, perché sono la prima cosa che vedi quando ti alzi la mattina, però anche l’ultima cosa che lasci quando muori, rappresentano ciò che non ti serve più. Ritorniamo al concetto di tempo fisico oscillante. Tutto sembra immobile in questo momento. Ma non è così. Perché ogni punto della terra non è mai fermo. L’oscillazione che noi abbiamo nella nostra testa, di essere umani animali, non è mai assorbita fino in fondo perché desidereremmo sempre avere un piano. Invece, se si decidesse che questo piano non c’è, si potrebbero accettare tante cose nella vita perché si comprenderebbe che è l’ondulazione continua a condurci. L’oscillazione dà equilibrio.
E poi, se tu ci pensi, soprattutto per le donne, l’oscillazione del corpo è totalmente insita. Tu sei in gravidanza ed è molto evidente, ma anche nella vecchiaia.
Noi siamo molto diverse dagli uomini perché accettiamo più facilmente il fatto che il fisico cambi. Ad esempio, nel momento in cui hai dei figli comprendi (o forse no) e ti assuefai a un tempo che non è tuo. E questo è importante, mentre le donne non lo accettano nella cultura.
Questo anticipa una domanda che avrei voluto porle: Il ruolo della donna artista, pittrice, oggi. Ha già detto, in altre occasioni, quanto sia stato difficile all’epoca rendere pubblico il proprio essere artista, donna, recepita in maniera scostante da un universo prevalentemente maschile. Le cose sembrano molto cambiate…
Non tanto in realtà. Comunque in modo molto superficiale. Sai, è molto difficile leggere quello che è stato nel passato perché all’epoca le condizioni erano veramente strette. Se tu pensi, ad esempio, ad Artemisia Gentileschi, ritorniamo a quelle sole tre, quattro figure uniche nel panorama complessivo. Oggi naturalmente le condizioni sono cambiate, sia in un senso positivo che negativo. Positivo perché l’accesso al mondo dell’arte, che poi diventa purtroppo il mercato, è più possibile, non dico più facile. Se guardiamo poi caso per caso, vediamo quanto le donne generalmente siano condizionate dagli uomini. Non c’è niente da fare. A me è successo tante volte di essere l’unica donna invitata in una mostra di uomini e di sentirmi dire “Come sei brava!”. No! Io non sono brava, sono una specie di ostaggio perché sono invitata solo a rappresentare la categoria. E questo non va bene. Le donne hanno ancora molto da esprimere, la loro creatività è ancora tanto da scoprire.
Se qualcuno mi chiedesse: la vita o l’arte? Non ci penserei un minuto a rispondere: la vita! Perché l’arte viene molto dopo e non è tanto importante come giudicano gli altri. Però è vero che ci deve essere porosità tra queste due cose. Io non posso pensare di essere più brava di un uomo, solo in quanto donna. Più brava, perché sono brava io. Oppure meno, perché non lo sono. Ma questi continui confronti sono molto pericolosi.
Come si sopravvive all’arte dopo tanti anni di lavoro? Come si sopravvive oggi alla moltitudine di possibilità, perseguendo la coerenza e rimanendo saldi ai propri principi artistici, di vita, di ricerca?
Si sopravvive perché l’arte è un virus. È una cosa di cui non si può fare a meno. Adesso, che per esempio sono stata poco bene e da due settimane non vado a studio, non faccio altro che concentrarmi a stare meglio per tornarci. Perché per me è un’esigenza primaria. È come mangiare, vivere, respirare. È quello che forse in fondo mi ha salvato in una vita lunga, felice sì, ma anche costellata di molti lutti e molte disgrazie. Non è soltanto la stanza tutta per sé, è il fatto di avere qualcosa dentro che ti continua a muovere.
Un artista secondo me non deve mai dimenticare l’umiltà, rispettando se stesso, il lavoro proprio e degli altri, e, paradossalmente, l’orgoglio, l’orgoglio di essere diversi [ride, N.d.R.]. Sei umile perché conosci i tuoi limiti, però sai anche che ci sono cose che puoi fare soltanto tu, accettando la solitudine, che poi è una solitudine materna. Quando fai un figlio, lasci una parte di te. Ma sei fondamentalmente sola. La solitudine del corpo è qualcosa di incredibile.
Nel documentario emerge l’importanza della luce, dello sguardo, della declinazione delle ombre. Quindi, l’impiego di materiali plastici, trasparenti. E il concetto di gravità.
Sì. Infatti affermo: “Io sono una pittrice dell’ombra”. Perché l’ombra ha una sua forza, che diventa più importante del soggetto disegnato. La luce crea e distrugge nello stesso tempo, perché distrugge la forma. L’ombra ti dà la possibilità di una forma altra che diventa più essenziale della forma stessa. Anche qui c’è dinamismo.
Tante artiste, negli Anni Settanta soprattutto, si concentravano sulla gravità del corpo, attraverso figure appese. Io sono più propensa alla leggerezza, all’affioramento delle cose piuttosto che alla loro pesantezza, sono probabilmente un segno d’aria.
Come disse una volta Emilio Vedova, parlando di lei: “Ogni pittore ha un segno, il tuo è un segno vento”.
Vento certo, che non riguarda soltanto un fatto atmosferico. Ho realizzato un quadro tanti anni fa in cui inserivo un passaggio del Marco Polo, de Il Milione: il protagonista, per indicare un luogo nel deserto, non avendo la possibilità di un segno, lo identificava come un incrocio di venti. Ovvero, anche il vento con le sue direzioni può diventare un segnale. Può diventare materico. Il diagramma che vediamo nelle previsioni atmosferiche ci può aiutare a interpretare la vita, perché ci sottrae finalmente a quella che è stata la nostra prigione del quotidiano. Bisogna studiare, studiare tutto. Non solo la storia dell’arte, bisogna conoscere anche qualche nozione di fisica, di matematica, etc. Bisogna capire cosa sono i tempi nostri, rendendoci conto, ad esempio della trasformazione incredibile in cui siamo proiettati noi in questo momento epocale, un’accelerazione che non c’è mai stata prima.
Cosa posso fare? Posso fare allora un’opera stabile? Posso essere contemporanea? No! Io sono temporanea! Io ti do una cosa in questo momento che puoi vivere qui e ora. Domani te ne darò un’altra!
‒ Marta Silvi
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