Neovernacolare (IV). Il cinismo
Moda e cinismo. I due poli concettuali fra cui si muovono le riflessioni di Christian Caliandro nell’ambito della rubrica sul neovernacolare.
Quello che ci ha fregato, e che continua a fregarci, è in definitiva il cinismo. L’attitudine ipersofisticata, l’ansia di dover dimostrare il proprio aggiornamento, l’essere-parte e vicini il più possibile al centro (invece che in periferia), l’essere al corrente… Era questa la “forma di stanchezza annoiata che fa tanto in” di cui parlava David Foster Wallace, e che dal territorio della letteratura postmoderna si è estesa all’arte visiva (o forse è sempre stata lì, ovunque, in tutte le zone culturali negli ultimi decenni).
La moda, sì, la moda è diventata il riferimento fondamentale: quel particolare processo in base al quale si seleziona un contenuto all’interno di un archivio dato (di forme prodotte nel passato), o meglio ancora si assemblano contenuti provenienti dallo stesso archivio, e si decide che questo assemblaggio, questo mix è quello giusto per l’anno in corso. Solo che l’arte funziona in maniera diversa.
E questo voler incastrare tra di loro esigenze e istanze differenti, incommensurabili, alla fine rende instabile e insostenibile il sistema. Oppure, molto più semplicemente, lo ha reso stabile e sostenibile in un altro senso, trasformando dunque l’arte in qualcos’altro. Il che ci riporta dritti alla questione del neovernacolare.
Perché se questa forma vecchia-nuova, arcaica-d’avanguardia è realmente maleducata, spontanea e brutale, allora in questa spontaneità sarà possibile ritrovare l’energia, la convinzione. L’alternativa al cinismo, che è un distacco, una distanza – ironica, ma disperata – rispetto all’opera e alla sua funzione. Si tratta, in fondo, di credere in maniera se volete ingenua e antiquata al fatto molto elementare che l’opera abbia un potere. Che l’arte sia una forma di magia ‒ e che quell’elemento ‘popolare’ che a volte, non tanto spesso ma a volte, riconosciamo in essa sia alla base di questa magia. Popolare in questo contesto vuol dire connesso direttamente e profondamente alle abitudini e alle esigenze e alle vocazioni quotidiane, di vita comune e pratica, degli individui e delle comunità.
Come accennato nella scorsa puntata, Goffredo Parise aveva intuito a modo suo questo elemento. Ne L’eleganza è frigida (1982), per esempio, si concentra su un dettaglio apparentemente insignificante che svela e dispiega la natura di un popolo, quello giapponese, e la sua concezione artistica: “Un giorno la sua attenzione si fissò quasi automaticamente su un alberello, uno dei tanti che fiancheggiavano le vie di Tokyo e di cui non conosceva la specie e tanto meno la famiglia. L’alberello era come circondato o cintato da una piccola gabbia di protezione fatta di quattro paletti infissi nel terreno e incrociati ad altri quattro paletti trasversali così da formare una sorta di piramide tronca in mezzo a cui stava l’albero. Nel punto in cui i quattro paletti si incrociavano, a circa un metro da terra, c’era un legaccio che avvolgeva le estremità dei paletti trasversali e questo legaccio era di cordicella vegetale. Questo particolare che si ripeteva assolutamente identico in tutti gli alberelli lungo le strade di Tokyo si impose all’attenzione di Marco perché la cordicella di sostanza vegetale mostrava nell’attorcigliatura quelle irregolarità e asperità delle corde fatte a mano. (…) Questo significava prima di tutto che per quel genere di lavoro non era stata inventata in Occidente una macchina che i giapponesi avrebbero potuto portare nel proprio paese e perfezionare, e in secondo luogo che quel lavoro esigeva di essere fatto a mano e non a macchina. (…) Era un lavoro che si era sempre fatto a mano, che per tradizione esigeva di essere fatto a mano. Ma perché? La sola risposta che Cartesio seppe suggerire a Marco fu questa: per ragioni estetiche. Cioè per ragioni che doveva rispettare al tempo stesso la tradizione, la materia dell’albero, che era vegetale, l’armonia tra materia e materia (il vegetale dell’albero e la cordicella) e l’apporto creativo dell’uomo. Era insomma quanto bastava per fare di quel lavoro di avvolgimento e di quell’asola un’opera d’arte” (in L’eleganza è frigida, Adelphi 2008, pp. 53-56).
‒ Christian Caliandro
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