Atlas of Transitions. Il festival bolognese sulle migrazioni
È iniziata a Bologna la seconda edizione di Atlas of Transitions, festival che accende i riflettori sulla relazione tra arte e attivismo per dare la parola ai protagonisti dei processi migratori, i cittadini, e ri-semantizzare il significato del termine integrazione. Ne abbiamo parlato con la curatrice Piersandra Di Matteo.
Atlas of Transitions è un programma biennale che nasce da un progetto europeo. Chi sono i partner e quali sono le relazioni?
Atlas of Transitions è il progetto internazionale promosso da Emilia Romagna Teatro Fondazione, project leader, con Cantieri Meticci e Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia. Il progetto si sviluppa in altri sei Paesi: Polonia, Belgio, Francia, Svezia, Albania, Grecia, con il compito di sviluppare azioni partecipative con le comunità migranti nei propri territori e a creare sinergie affinché tali azioni possano transitare negli altri contesti nazionali. Nella prima edizione, Right to the city (diritto alla città), abbiamo lavorato su una cittadinanza affettiva che passasse attraverso la conoscenza della città: come viviamo, coabitiamo, ci relazioniamo, quali sono le forme di reciprocità che siamo in grado di attivare. Abbiamo individuato processi artistici che attivassero mappature della città: vocali, corporee, narrative.
E per questa nuova edizione, dal titolo HOME?
In questa nuova dieci giorni, iniziata il 1° marzo e che terminerà con una grande festa il 10, interroghiamo il concetto di “casa”, approfondendo la nozione di affettività legata al concetto di cittadinanza. HOME, titolo che si presenta senza aggettivi ma si declina al plurale: case o “questa è casa”. Un invito ad accogliere ma anche a guardare alla migrazione deponendo la retorica dell’eccezionalità. Bisogna riconoscere che oggi le persone che lasciano l’Italia sono di gran lunga superiori, numericamente, rispetto a quelle che arrivano. La studiosa Sarah Amhed ci invita a decostruire l’idea del migrante come colui che abbandona la “casa”, luogo originario e autentico, diventando uno “sradicato ontologico”. Ci incita invece a metter in valore i corpi nella loro materialità, le forme di soggettivazione a cui dar vita nel momento in cui si incontrano altri contesti, non per forza familiari, ma comunque delle forme di “casa”.
Cosa significa non sentirsi a casa? Tutte queste problematiche non possono non contemplare il corpo, le memorie, i saperi, i movimenti sensoriali che si manifestano nella concretezza delle relazioni e dei legami e anche nella sfera ordinaria dell’esistenza.
Dalla prima edizione a questa seconda avviene un passaggio dal fuori al dentro, i processi migratori sono stati analizzati in relazione dalla città per poi entrare in una sfera più intima, di cui la casa diventa la metafora.
L’immagine di riferimento dell’anno scorso ritraeva le abitazioni-baracche che i migranti stagionali costruiscono in Puglia, quest’anno invece si entra all’interno di una casa con la foto dell’afroamericana Nydia Blas: due donne in un interno, il viso coperto da un tessuto dorato. Con la serie The Girls Who Spun Gold, la fotografa esplora cosa significhi essere razzializzate e sessualizzate dallo sguardo altrui e crea uno spazio fisico e allegorico inteso come una forma di resilienza magica.
Si entra nelle case anche con l’artista estone Kristina Norman, che dedica un progetto alle lavoratrici impegnate nel lavoro domestico e di cura, le badanti, un tema meno indagato di altri legati all’immigrazione.
Si tratta di una co-produzione con Santarcangelo dei Teatri e l’Homo Novus festival di Riga. Kristina è in residenza a Bologna per tre settimane per realizzare una serie di interviste alle lavoratrici domestiche qui (soprattutto ucraine), alle donne badate e anche alle famiglie d’accoglienza, con lo scopo di realizzare una docu-performance, che sarà presentata a Santarcangelo. Ad Atlas accoglieremo una tavola rotonda, curata da Sabrina Marchetti, importante studiosa delle forme e condizioni del lavoro domestico in Italia e nel mondo. Un peso importante è dato alle rivendicazioni dei diritti di queste donne che saranno presenti anche all’incontro. Il festival privilegia sempre una prospettiva aperta, in cui ognuno possa prendere la parola.
Quali sono i pubblici? E come viene percepita l’offerta dalle diverse tipologie di spettatori? E la possibilità di poter legare arte e attivismo?
Questa è la vera sfida del progetto, cercare di convocare diverse forme di partecipanti più che pubblico. Pratiche discorsive, partecipative e spettacolari le immaginiamo come aperte a spettatori diversificati, per non raggiungere solo i pubblici del teatro ma penetrare la periferia, incontrare le associazioni straniere, dialogare con gli attivisti, cercare forme alternative che permettano l’inclusività. La partecipazione alla prima lezione della School of Integration, con la poetessa eritrea Ribka Sibhatu ci ha stupiti, soprattutto perché c’erano tanti italiani e persone di diverse età, giovanissimi e anziani. Una forte partecipazione cittadina e, grazie alla concomitanza con il VIE Festival di Modena, anche un pubblico nazionale e internazionale.
È la prima volta in Italia per la coreografa Fatoumata Bagayoko, maliana.
Mi interessava riflettere su quali siano le proposte di artisti che si sono formati nel proprio Paese e che mantengono, come è anche il caso di Dorothée Munyaneza e di Nadia Beugré, un legame forte con il Paese di origine, con i suoni, le atmosfere, i profumi, la dimensione sensibile e quella della memoria. Fatoumata ha lavorato a lungo sulle danze locali maliane, ma a un certo punto, recentemente, ha incontrato l’arte contemporanea in Senegal. Fatou t’as tout fait è una pillola performativa, un esordio, una forma ibrida che per certi versi potrebbe sembrare naif a un pubblico occidentale. Il tema che tratta è complesso, quello della mutilazione genitale femminile, che lei stessa ha subito e che è una pratica diffusissima in Mali. Ho fortemente voluto questa performance poiché, al di là dell’aspetto estetico, è una forma di protesta, un corpo che si ribella contro una forma di violenza.
Cosa si è creato nella relazione con la città, con gli spettatori? E cosa è cambiato? Forse è ancora presto per dirlo.
Right to the city è risultato estremamente efficace poiché ha mescolato pubblici molti diversi e lasciato delle tracce, prima fra tutte una sensazione di inclusività a cui è stato facile ricollegarsi, anche rientrare in contatto con una serie di realtà (attivisti, associazioni…).
Cosa porta di nuovo credo sia presto per dirlo. Ma di sicuro i due progetti della Bruguera ci hanno permesso di approfondire questioni che erano importanti già dalla prima edizione e che sono diventate centrali nella seconda. Con Referendum, tre assemblee pubbliche hanno scelto il tema di una campagna referendiaria urbana: “I confini uccidono. Dovremmo abolire i confini?”. Sono stati instaurati venticinque punti nella città in cui è possibile votare. Un progetto radicato che ha visto insieme soggetti che di solito non si trovano allo stesso tavolo. Un gesto utopico e radicale. Al talk inaugurale vi erano circa 120 persone.
La School of Integration è una scuola aperta alla cittadinanza che ci ha permesso di inquadrare la figura del migrante come portatore di valori e di ricchezza e non solo deficitario, oltre che di approfondire il dialogo con la comunità eritrea, palestinese, marocchina, cinese, iraniana.
Avete attivato relazioni con le scuole?
Abbiamo sviluppato un edit-a-thon Art+Feminism, un progetto promosso dalla Wikimedia Foundation volto a colmare il gap di genere relativo alle voci di Wikipedia, coinvolgendo sei classi degli istituti superiori. Solo una percentuale di voci molto bassa su Wiki Italia è dedicata a donne e bassissima è la percentuale di donne che pubblicano.
Un progetto che affronta tanti temi insieme, anche quello dell’open source, di cosa voglia dire il sapere libero. E cosa ci dici del docufilm di ZimmerFrei?
Sono gli artisti bolognesi associati alla Biennale e stanno realizzando un film in episodi con gli adolescenti della città di Bologna. Protagonista del primo episodio è Yakub, partito a 15 anni dal suo Paese di origine e arrivato in Italia, come minore non accompagnato, dopo due anni. Ora che ha 18 anni è entrato in un progetto che gli permette di coabitare con altri studenti bolognesi. Il documentario lo insegue nelle sue peregrinazioni in città.
Il progetto apporta un punto di vista importante all’analisi che si può fare del termine “integrazione”, che non è solo un’azione svolta da parte di chi arriva per adattarsi ma anche un movimento, un cambiamento che deve avvenire in chi accoglie, acquisire nuove pratiche e aperture. Non soltanto aprirsi all’accoglienza, ma apprendere davvero nuovi orizzonti.
Sì, la cultura è sempre intercultura, una forma di meticciato, di incontro, e questo si cerca di mettere in valore.
‒ Chiara Pirri
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