Abbiamo escluso i mega brand appartenenti ai conglomerati del lusso di Arnault (LVMH) o Pinault (Kering) e abbiamo puntato sul talento dei designer piuttosto che sul nome di marchi billions dollar, billion pound o billion yen… Le passerelle sono – o dovrebbero essere – un’esibizione di abiti che dopo qualche mese arrivano in negozio (o su una piattaforma e-commerce). Tuttalpiù più sono una proiezione fantastica del sentimento di chi li ha disegnanti, sentimento sperabilmente condiviso da chi dovrebbe acquistarli. Poco convincente risulta invece lo show fine a se stesso, utilizzato soprattutto per il suo aspetto comunicativo, peggio ancora se infarcito di speculazioni pseudo-sociologiche. Queste ultime vengono utilizzate quasi sempre per coprire fragilità creative: perché anche i “sarti” pensano – ci mancherebbe – ma il loro pensiero passa attraverso l’utilizzo di materiali, colori, linee e volumi. Abbiamo escluso anche di prendere in considerazione la sempre straordinaria triade giapponese, Mikake, Kawakubo, Yamamaoto i loro discepoli (Juìnya Watanabe, Jun Takahashi, Chitose Abe, Takahiro Miyashita, Noir Kei Nionomiya), senza una ragione di merito in verità. Ecco invece le nostre scelte.
VIRGIL ABLOH PER OFF-WHITE
Emerso con prepotenza agli onori delle cronache da quando gli è stata affidata la direzione artistica della collezione uomo di Louis Vuitton, Abloh (nato nel Sud degli Stati Uniti) non ha per questo smesso di presentare il suo marchio Off-White o di sfornare capsule collection a getto continuo per Nike e per Supreme. Appena 30 giorni fa ha reso accessibile via web una capsule dedicata all’active da palestra per la primavera entrante. È evidente a che per i designer di questa generazione (Abloh ha 39 anni) i calendari delle fashion week calzano stretti. Una tendenza che si sposa perfettamente con la delirante pressione che il fast fashion mette in atto: 12-14 collezioni ogni anno di cui nessuno sembra sentire il bisogno. Ma per tornare alla collezione presentata a Parigi va detto che è forse la più “sartoriale” tra quelle che siano mai uscite dal suo studio. Ma la svisatura è pure evidente. Il cappotto lungo – un capo immancabile nelle collezioni di questo autunno/inverno 2019 – è abbinato con shorts di derivazione athleisure. Così come appare l’uso della pelle, delle stampe geometriche, di forme drappeggiate, avvolte e asimmetriche da affiancare a sneaker su abiti da cerimonia o sandali tacco alto da portare con il piede nudo in pieno inverno con abiti da città. Ci stanno? In passerella sì, per la strada è tutto da dimostrare
RICK OWENS. TRA CAMP E COUTURE
Il californiano Owens ha focalizzato l’attenzione su silhouette e geometrie affilate. Basterebbe ricordare ciò che aveva esposto nella mostra a lui dedicata qualche tempo fa alla Triennale di Milano per confermare l’assoluta coerenza del suo lavoro. Così come è accaduto per la palette di colori dove sono presenti ancora molto nero e molto grigio, accenti bianco e di marrone, con inserzioni di rosso, questo sì meno per lui meno consueto. Owens è comunemente considerato un designer provocatorio ed estremo, eppure nel suo lavoro riesce a incrociare riferimenti ultra pop e ultra classici. In questo caso l’estetica camp del costumista dei Kiss Larry LeGaspi, tagli che si rifanno al raffinato couturier americano Henry James e lavorazioni che richiamano a stampe e plissé addirittura del “veneziano” Mariano Fortuny. Sulla passerella insieme a protesi e parrucche aliene sono apparsi questa volta abiti drappeggiati, giacche strutturate e, naturalmente, accessori audaci. Il montaggio dei suoi pezzi che si trasformano in mise da red carpet rende sempre difficile capire a noi mortali quali saranno quelli destinati a musei ed esposizioni e quali potranno essere realmente acquistati, indossati e riposti in un comune armadio.
DEMNA GVASALIA PER BALENCIAGA
Il georgiano Gvasalia da qualche stagione è il designer di Balenciaga, marchio che fa parte del gruppo Kering. Per l’autunno / inverno 2019, Gvasalia ha presentato una collezione che mixa tagli sartoriali a maglieria, jeans lavati, camicie con maniche semitrasparenti, pantaloni ampi e miniabiti con grafica a stampa. Gvasalia come sempre si è concentrato sul gioco delle proporzioni. Cappotti, bomber, abiti e blazer vantano spalle imbottite e cucite che stanno a metà tra il medioevale e il futuribile. Ma nel suo caso non si tratta di un trend di stagione, perché è stato proprio lui, da diverse stagioni a proporre questi tagli muscolosi e difficili che spostano tutto il peso sul busto in una silhouette complessivamente ampia. E qui si pone una domanda ineludibile. Tanta abbondanza ha davvero senso nell’uso contemporaneo? O si tratta di raffinati esercizi di stile come quelli a cui ci ha abituato Rey Kawakubo con Comme de Garcons, che in realtà presenta poi una seconda collezione molto più vendibile? Per la presentazione della scorsa domenica 3 settembre Gvasalia ha inoltre abbandonato la forma dello show sensazionalistico che aveva caratterizzato le precedenti edizioni. Più che un segno di raggiunta maturità, un distintivo di appartenenza al ristretto gruppo di designer più intellettualmente dotati: Rei Kawakubo, Miuccia Prada, Rick Owens e Iris Van Herper.
STELLA MCCARTHY. IL CHIODO FISSO DELLA SOSTENIBILITÀ
La figlia dell’ex Beatles appartiene certamente alla categoria dei born with a silver spoon in your mouth ma un merito tutto e solo suo pure ce l’ha. È stata la prima in tempi non sospetti a porre l’accento sul problema della sostenibilità dei materiali e delle lavorazioni utilizzati dall’industria dell’abbigliamento. E non demorde: è stata pure la prima tra i suoi colleghi a firmare il documento della Ellen McArtuhr Foundation che getta le basi per ridisegnare il futuro della produzione moda. Non è cosa da poco e ora sta diventando anche “terribilmente” hype. La viscosa che McCartney utilizza per costruire i suoi pezzi è raccolta da foreste gestite in modo sostenibile in Svezia. Ha usato strisce di t-shirt vintage come fossero filati; ha costruito abiti multicolore con tessuti provenienti da collezioni precedenti per dettagli decoro. Ha lavorato in questo modo anche sugli accessori: ha proposto orecchini fatti con graffette, una lunga collana impreziosita da elastici, così come una cintura tessuta monumentale realizzata dalla artista tessile Sheila Hicks. Gli scienziati sostengono che il problema della sostenibilità ha raggiunto un punto critico: la sua collezione è un modesto contributo a un problema immenso, ma i suoi colleghi dovrebbero considerarla come un invito aperto a unirsi e muoversi tutti insieme in questa direzione.
MARINE SERRE. MA È DAVVERO LEI L’ASTRO NASCENTE?
Ha solo due presentazioni alle spalle. Ma la francese Marine Serre già si pone come la nuova babe dei più snob tra i connoisseur che fanno parte del circo mediatico della moda. A Parigi ha portato il suo pubblico dentro bui tunnel sotterranei alla periferia della città: Intitolato “Radiazioni”, lo show ha proposto “guerrieri del futuro” sfoggiando pezzi decostruiti e insiemi davvero poco convenzionali. Il tutto proposto all’interno di una visione “post-apocalittica ma ottimista”: almeno questo è quanto si ricava dalle dichiarazioni della designer. Che significa? Non lo sappiamo, ma una volta iniziato lo spettacolo, la prima uscita è stata quella di una modella infilata in una tuta head-to-toe con la stampa a mezzaluna che è la firma più riconoscibile della designer. Intorno a questa stampa Serre ha costruito i sui “pezzi”: cappotti in pelle con cuciture in evidenza, parka scolpiti e pannelli di tessuto pericolosamente romantici abiti, sciarpe e inserti fake fur in colori elettrici o pastello… È acerba questa collezione ma per niente scontata. Le sue apparizioni hanno costruito un tableau vivant che assai meglio delle parole della designer rappresenta il sentimento confuso che sta attraversando tutte le nostre vite. Nessuna istanza pseudo-sociologica: sentimento questo sì. E una strana bellezza: il massimo che ci si può aspettare da un “sarto”.
– Aldo Premoli
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