Gli artisti e la ceramica. Intervista a Marcella Vanzo

Marcella Vanzo racconta origini e sviluppi del suo legame con la ceramica.

Il nuovo episodio della rubrica dà voce a Marcella Vanzo (Milano, 1973), un’artista che ha progressivamente inglobato la ceramica all’interno della propria ricerca in fotografia e video. Nel corso della chiacchierata le abbiamo chiesto di raccontarci come è nata la sua passione per la materia e dei suoi sviluppi futuri, ovviamente passando anche per To weak up the living to wake up the dead la sua mostra personale, a cura di Matteo Bergamini, in corso presso la Fondazione Berengo di Venezia.

La combinazione di fotografie e ceramiche era al centro della mostra Secreto, curata da Marinella Paderni e presentata all’interno del Festival della Fotografia di Reggio Emilia. Posso chiederti come è nata l’idea di questi accostamenti?
Nel caso di Secreto, la mostra era dentro una chiesa sconsacrata. Ho lavorato sull’architettura sacra, uno spazio molto connotato, e ho lavorato in studio su un archivio di foto familiari del primo Novecento. Ceramica come secrezione dell’architettura da un lato, ceramica come commento ironico sull’esistenza dall’altro. La ceramica, da selvaggia autodidatta che sono, mi permette di creare commenti e legami inaspettati con gli oggetti a cui la associo di volta in volta. Segreti della chiesa e segreti di famiglia, un rimando continuo tra nodi di relazioni umane, un aspetto che metto sempre a fuoco nel mio lavoro. Abbiamo utilizzato l’altare come piedistallo, installato lavori sugli inginocchiatoi, ospitato le ceramiche nelle cappelle, frugato le crepe. La chiesa era un enorme spazio vuoto, la mostra fatta di piccoli dettagli tattili a cui avvicinarsi, micro storie da investigare, segnate dagli interventi in ceramica sia sugli elementi architettonici che sulle persone ritratte.

Marcella Vanzo, Petits Portraits Savarine, 2014, colour print, detail, 2014, Lucie Fontaine, Milano. Photo Alessandro Miti

Marcella Vanzo, Petits Portraits Savarine, 2014, colour print, detail, 2014, Lucie Fontaine, Milano. Photo Alessandro Miti

Produrre la ceramica è spesso legato a difficoltà tecniche e per questo molti degli artisti intervistati fino a ora hanno parlato della loro collaborazione con botteghe e con artigiani. Come lavori tu, invece?
Io improvviso. Sono gli oggetti che popolano il mio studio a cercare la ceramica. Seggiole, attaccapanni, cartoline, fotografie allungano una mano, afferrano l’argilla e compiono un salto verso altre dimensioni. La ceramica costringe all’attenzione, piomba su un oggetto e lo devia per altre strade, crea nuovi significati, commenta con ironia. Credo che anche le immagini siano oggetti, infatti associo spesso ceramica e fotografia perché la ceramica commenta in modo implacabile ma esilarante tutto il non detto di un’immagine.
I primi pezzi mi son stati letteralmente dettati al telefono dalla bottega Gatti di Faenza, istruzioni precise e, sì, i miei disegni erotici sono diventati statue. Una sorpresa enorme, una gran voglia di sperimentare. Quello che mi affascina della ceramica è questo continuo divenire, non mi interessa il lato artigianale e perfetto del lavoro, ma scoprire ogni volta cosa esce dal forno e con quello lavorare. In studio lavoro e sperimento, poi vado in bottega dai Puzzo in Bovisa e vedo cosa succede. Torno in studio e continuo. È un approccio diametralmente opposto ad altri miei progetti, in cui so perfettamente quale sarà il risultato finale e tutto il lavoro sta nel renderlo possibile.

Quando hai iniziato ad avvicinare il materiale avevi dei modelli di riferimento? C’erano o ci sono artisti che la usano in una maniera che senti vicina?
La mia pratica artistica è molto varia. Lavoro da molto tempo con video, installazioni, performance. E continuo. La ceramica è entrata surrettiziamente qualche anno fa, come ho detto, a seguito di alcuni disegni che volevano diventare sculture, ho seguito un impulso e i consigli di chi già faceva. Alessandro Pessoli mi ha aperto la strada con una parola magica, Faenza. I lavori con la ceramica, fatti di micro quotidianità in studio, coesistono con progetti video, per esempio, che si muovono in altre dimensioni, digitali, immateriali, temporali.
Il tempo di una videoinstallazione è fatto di lunga progettazione, di spazi da cercare, di interpreti, di pre-produzione, operatori, riprese e montaggio, suono.
La performance nasce da una ricerca fluida e continua attorno alle parole, che spesso diventano anche immagini. Ogni disciplina ha il suo spazio, il suo tempo e la sua modalità. Ogni progetto è indipendente ed esiste a sé.

Marcella Vanzo, Petits Portraits Lily, 2014, colour print, detail, Lucie Fontaine, Milano. Photo Alessandro Miti

Marcella Vanzo, Petits Portraits Lily, 2014, colour print, detail, Lucie Fontaine, Milano. Photo Alessandro Miti

Per via della sua facilità nel registrare l’azione, specie nel suo bloccare immediatamente il gesto, la ceramica è molto vicina alla dimensione performativa (una pratica anche questa molto vicina alle tue corde). Come vedi interagire questi due mondi nella tua ricerca?
Finora la ceramica non è entrata nella performance, se non tematicamente. Il lavoro sulla pelle, per esempio, è diventato performance, Sto per farmi la pelle, presentata anche a Reggio Emilia in occasione di Secreto, ma sono lavori molto diversi tra loro. Le Pelli in ceramica sono installazioni nate da esperimenti con argilla bianca smaltata. Non ho ancora indagato la ceramica come interprete del gesto, chissà…

Artisti come Ornaghi e Prestinari ci hanno parlato del loro interesse per la ceramica come oggetto popolare, quotidiano, e hanno svelato una certa fascinazione per la sua dimensione antropologica. Vista l’importanza della ricerca antropologica nel tuo lavoro, questo è un elemento che ti affascina?
L’antropologia, per quanto mi riguarda, riflette una grande curiosità verso l’essere umano e tutte le sue forme di esistenza. Di vivere, di credere, di organizzarsi di conseguenza o disorganizzarsi. Si tratta di una disciplina intellettuale, così come l’ho studiata, di una lente attraverso cui guardare il mondo. Anche a me la ceramica interessa come oggetto popolare, quotidiano, decorativo, con una lunga storia alle spalle. Che mi interessa più che in senso antropologico, come punto di partenza per costruire un senso, un significato. Soprammobili, per esempio ‒ una serie di lavori in cui vere riviste diventano sculture commentate da interventi di ceramica ‒, sono una riflessione ironica su quello che decorava un tempo e decora ora gli ambienti domestici.

Il tuo ultimo progetto espositivo include proiezioni video e foto scattate presso il sacrario militare di Redipuglia. Come è nato questo progetto? Lo ritieni concluso? Tempo fa mi avevi parlato della possibilità di integrare anche la ceramica in questa ricerca. Credi che accadrà nel prossimo futuro?
Il lavoro è concluso e attualmente in mostra alla Fondazione Berengo a Venezia, non perdetevelo. To wake up the living, to wake up the dead è una videoinstallazione girata a Redipuglia in Friuli, il sacrario più grande d’Europa, centomila militi seppelliti, un silenzio ottundente. La morte in grande stile, in grande scala, organizzata tramite guerra, eserciti, caduti. E la vita. La vita come rumore, la vita come continuum organico, la vita che la guerra la seppellisca per sempre. Il video esplora questa dimensione, ho portato un batterista a tuonare in mezzo a Redipuglia, a svegliare quel luogo con l’attenzione e il fragore che la vita richiede. E due installazioni, una in cui ho ripreso ed editato la scritta PRESENTE, che caratterizza il sacrario, in un SENTE, che al presente invita a prestare attenzione. La seconda installazione, I NOMI ‒ per cui avevo pensato anche alla ceramica come materiale ‒, è fatta di migliaia di nomi propri dei caduti, la parte più umana e individuale di ognuno di loro. Li ho stampati su carta fotografica, ne ho inondato una stanza e i visitatori sono invitati a portarne via uno, risvegliandone così la memoria.

 Irene Biolchini

www.marcellavanzo.com

Gli artisti e la ceramica #1 ‒ Salvatore Arancio
Gli artisti e la ceramica #2 ‒ Alessandro Pessoli
Gli artisti e la ceramica #3 ‒ Francesco Simeti
Gli artisti e la ceramica #4 ‒ Ornaghi e Prestinari

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Irene Biolchini

Irene Biolchini

Irene Biolchini (1984) insegna Arte Contemporanea al Department of Digital Arts, University of Malta, ed è Guest Curator per il Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza, per il quale dal 2012 cura mostre site specific. È curatrice della collezione d’arte…

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