Tra musica, arte visiva e scienza. Alva Noto al Teatro Bellini di Napoli
Dopo i più importanti festival al mondo come il Sonar di Barcellona, arriva a Napoli l’evoluzione del nuovo progetto di Alva Noto a.k.a. Carsten Nicolai, “Unieqav”, l’ultimo di una trilogia di sperimentazione sonora.
Ve ne avevamo già parlato un anno e mezzo fa, ma all’epoca era ancora la versione beta quella presentata a Firenze, in anteprima nazionale, al Nextech Festival. Stavolta, la quête è progredita, ed è lo storico Teatro Bellini di Napoli ‒ nell’ambito della rassegna Synth di Cesare Settimo ‒ ad accogliere tra le sue mura ottocentesche e nel cuore antico della città, con deflagrante ma fecondo contrasto visivo e storico, l’epifania sinestetica di un cercatore del domani. Ma non è azzardato il setting per la performance di Unieqav, così come pregnante è anche la terminologia caratteristica dell’interminabile ricerca nei poemi cavallereschi d’altri tempi per l’evoluzione del nuovo progetto di Alva Noto a.k.a. Carsten Nicolai (Germania, 1965). Rispetto alla precedente versione, infatti, il mood si è fatto ancora più strutturato, sostenuto e con brani quasi eroici, a suggerire l’epica di un viaggio astrale in un domani ancora misconosciuto, ma grandioso e memore della storia quanto quelli sostenuti dai cavalieri letterari del passato.
ESSERE ALVA NOTO
L’inizio è essenzialità nell’oscurità. Del resto, da qualcosa di simile è nato anche il Big Bang. Una forma minimale nel nero, una cellula sonora e visiva, genera tridimensionalità da una linea, plasticità dal 2D. Già nel 2015, infatti, Alva Noto confermava a Vincenzo Santarcangelo, proprio sulle pagine di Artribune, lo sforzo nella sua arte di ricondurre la totalità a bidimensionali “pattern e griglie (…) fondamentali” come “esempio della dialettica semplice-complesso che si cela tanto dietro alla creazione di opere d’arte quanto dietro alla stragrande maggioranza degli eventi studiati dalla scienza”. E la complessità arriva infatti ben presto, con suoni che emergono dal pattern di fondo, scolpendo evocazioni respiranti di tipo naturale. Finora c’è stato un uso paradossalmente pittorico della sintesi sonora, che sospende in una dimensione mentale ricostruita, lontana dalla musica concreta e più rappresentativa. Ma lo scenario vira ben presto bruscamente: dopo l’acusticamente friendly, arriva l’angoscioso. Sono la macchina e l’astrazione assoluta adesso a parlare: spari sintetici violenti, abbinati a flash luminosi, sfidano i limiti di occhi e timpani, è come assistere allo scoppiare delle sinapsi nel proprio cervello in tempo reale. Già, tempo reale: viene da chiedersi cosa negli algoritmi resti di incontrollato, se sussistano dei margini di “inconscio tecnologico” ‒ per dirla con Franco Vaccari ‒ a svelare una dimensione ulteriore dalle aggressive geometrie sonore. Evidentemente sì: il quadro si arricchisce adesso di etereo subconscio, quasi un tappeto ambient, che dialoga a contrappunto con l’automa. Non conforta, inquieta maggiormente, l’onirico è un incubo. Siamo ora nello sfondamento prospettico.
DA ROTHKO A MATTHEW BARNEY
Nei visual, selve di segmenti colorati a penetrare punti di fuga nel monitor; nelle orecchie, cupi beat a rilevare profondità dallo sfondo di rumore bianco. Descrittivo, icastico, pittorico di nuovo. Suono e immagine l’uno l’espressione esplicativa dell’altro, ma con eguale dignità mai didascalica, ad aggiungersi reciprocamente prospettiva. E si va avanti così fino alla fine, in alternanza quasi sinfonica tra accenni melodici e pittorici, geometrie Op essenziali ma non senza dimensione, evocazioni cinestetiche, studi percettivi e spaziali quasi alla Rothko, ibridazioni post-human alla Matthew Barney ‒ in glitch che senza soluzione di continuità divengono voci robotizzate ‒ e il fuoco incrociato di parti percussionistiche quasi pop-tribali evocanti il typewriting di Unitxt.
Gli eventi ci sono, e si susseguono incalzanti, rendendo Unieqav fusione degna della trilogia che conclude, stringendo insieme la scomposizione analitica e ossessività della macchina di Unitxt con le evocazioni naturali, lo sfumato ambient più accogliente e l’uso beat più ecumenico dei glitch di Univrs.
Lo sfondo cui si torna, però, è sempre cupo, dark, a tratti ossianico. Il gran finale è come fuochi d’artificio, lo sturm und drang dei geni tedeschi si fa più vicino, il tono è epico: è questa la direzione successiva di ricerca di Alva Noto? Il disturbo, l’inquietante come leitmotiv sono l’espressione di un futuro in cui siamo non schiavi delle macchine, ma ibridati, per dirla con McLuhan, con deformanti protesi tecnologiche? Con l’architettura magniloquente e tragica di Unieqav, stiamo per entrare in una nuova era.
‒ Diana Gianquitto
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