Artista concettuale anonimo. Intervista a Goran Trbuljak
In mostra negli ambienti di Villa delle Rose, a Bologna, Goran Trbuljak riflette sul sistema dell’arte. Tra ieri e oggi.
Entrando a Villa delle Rose durante l’inaugurazione della retrospettiva dedicata a Goran Trbuljak (Varaždin, 1948) un particolare ci ha colpito immediatamente. Un giovane (studente dell’Accademia, ipotizziamo) stava copiando dal vero su un blocco il viso dell’artista croato che campeggia nel famigerato poster dell’opera I do not wish to show anything new or original (1971). In questa azione, che abbiamo percepito come un omaggio, si intravede il grande debito delle ultime generazioni verso la discussione dello statuto dell’opera d’arte, del ruolo dell’artista e delle istituzioni del mondo dell’arte, che figure limite come Trbuljak hanno elevato a temi centrali della loro ricerca. La mostra bolognese, proveniente dal CAC di Ginevra, rende conto, attraverso un allestimento preciso e rigoroso, di una lunga conversazione intrapresa con il sistema dell’arte, i suoi attori, i suoi spazi e le sue strategie. Per saperne di più abbiamo incontrato l’artista, stimolandolo su alcuni punti fondamentali del suo pensiero.
Partirei dalle Anonymous street actions, sia perché sono le prime presenti nella mostra procedendo in ordine cronologico, sia perché esse esprimono un alto grado di spontaneità dell’opera d’arte. Oggi, poi, che le tematiche dell’anonimato, dell’azione nello spazio pubblico e della condizione effimera dell’opera d’arte sono al centro del dibattito estetico, mi piacerebbe avere una tua considerazione sull’attualità.
Da giovane non sapevo cosa fosse arte o se io stesso fossi un artista. Con l’anonimato, in realtà, mi sono protetto da ogni tipo di critica e valutazione. Inoltre sapevo che, per il tipo di attività svolta, almeno nel mio Paese, non esisteva un linguaggio critico in quel momento che potesse convalidarmi. Quindi, lavorando in strada anonimamente, ero al sicuro da entrambe le parti. Anni fa pensavo che Internet per i giovani fosse quello che la strada era stata per me negli Anni Settanta. Se vuoi mostrare alle persone la tua attività, non hai bisogno di spazi istituzionali e non dovresti preoccuparti di alcuna responsabilità. Puoi semplicemente buttare le tue cose nel computer e spedirle (o condividerle).
Riguardo alla pittura, vorrei focalizzare l’attenzione sui lavori su carta per quel valore di esercizio quotidiano e quasi estraneo all’opera d’arte convenzionalmente intesa. Sono anch’essi parte di una riflessione sulla pittura come medium? Come descriveresti l’operatività lunga e ripetitiva che li contraddistingue?
Subito dopo l’Accademia, ho iniziato a fare quegli esercizi. Negli stessi anni, o addirittura prima, avevo sviluppato questa attività alternativa che non era basata sulle immagini: gli esercizi erano intesi come uno scherzo, perché con essi potevo prendere parte alle mostre collettive di associazioni di artisti per confermare il mio status e quindi avere una sicurezza sociale. Inizialmente ho chiamato questa produzione Esercizi di un artista e, in seguito, per raddoppiare l’assurdità, ho aggiunto per il lavoro che farà in futuro. Gli esercizi dell’artista richiedono la precisione dell’occhio e della mano, mirano a mettere il punto al centro del quadrato. Tradizionalmente, gli occhi, le mani e l’esercizio sono importanti per gli artisti. In definitiva, puoi considerarlo alla stessa stregua dei non credenti che vanno in chiesa, per ogni evenienza. Quindi spero ancora che quegli esercizi possano aiutarmi un giorno.
La durata temporale non solo dell’opera, ma anche del suo possibile mutamento negli anni, è al centro anche di Untitled, 1972-81/2001. Che importanza dai al tempo nel tuo lavoro? Da un lato il tempo dell’operare per realizzare l’opera e dall’altro il tempo, anzi la durata dell’opera, oltre il suo autore.
Quella diversa datazione è abbastanza comune nel mio modus operandi e nei miei lavori. Molte opere sono rimaste a casa mia per anni. Ho il tempo di guardarle per un po’ e di pensare a soluzioni che ancora non mi erano venute in mente. Sono un pensatore lento e molto spesso mi chiedo come mai non ho trovato la soluzione giusta prima. Su alcune tele incorniciate ho dipinto sulla superficie esterna, sul vetro che le separa dalla cornice. Con il passare del tempo ho scoperto che la tela poteva essere lavorata perforando il retro del telaio e, successivamente, mi sono chiesto perché non gettare il colore dalla parte superiore del telaio o sui lati, o, ancora, attraverso alcuni buchi.
Se le mie opere fossero uscite di casa mia prima, sarebbero state prive di quei segni, del tempo che ha agito su di loro. C’è una storia ben nota su una donna che non era felice del prezzo di un ritratto che Picasso le stava realizzando, a suo dire, troppo velocemente. Il pittore rispose che il tempo speso per quel ritratto non erano solo i secondi che erano passati, ma tutta la sua vita. Se adottiamo questa prospettiva, potrei forse datare i dipinti tra il mio anno di nascita e il giorno in cui sono stati venduti.
La relazione con l’Italia nella mostra è evocata e marcata dalla presenza delle opere dedicate ai cataloghi della Galleria del Cavallino di Venezia. Potresti raccontare come è nato questo progetto? In particolare, alle copertine di quei volumi sono legate alcune figure cardine dell’arte del XX secolo. C’è, nella volontà di riprodurle, un tentativo di omaggio?
Grazie a una precedente collaborazione per alcuni video con Paolo Cardazzo, sono stato invitato a tenere una mostra personale alla Galleria del Cavallino. In un certo senso, è chiaro che gli ingrandimenti delle copertine dei cataloghi della galleria sono una sorta di omaggio a noti artisti, ma la mia intenzione era di mostrare l’importanza della galleria in quanto tale, che era conosciuta per la presentazione di grandi figure internazionali in Italia. Nel mio caso, ero un artista sconosciuto di un piccolo Paese e la presenza in questo spazio “sacro” era un onore speciale. Per sentirmi a mio agio e adeguato ho cambiato il nome della galleria sugli inviti della mostra: da Cavallino a Canaletto.
Nelle cosiddette opere-mostra come I do not wish to show anything new and original è insita una riflessione sul ruolo dell’artista che, vista a posteriori, assume precisi connotati temporali e sociali. Qual è il tuo punto di vista sul ruolo dell’artista oggi e nel contesto dell’attuale sistema dell’arte?
La questione del ruolo dell’artista oggi è complessa per me e non sono sicuro di poter rispondere. Generalmente la domanda che mi arrovella non è “cos’è l’arte?”, ma piuttosto “sono un artista?”. Presumo che alcuni giovani stiano ancora cercando di rispondere a una di queste due domande per conto loro. O, forse, queste non sono affatto domande attuali, ma ce n’è una terza a cui sicuramente verrà data una risposta.
‒ Claudio Musso
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati