Architetti d’Italia. Marcello Piacentini, il democristiano
La storia dell’architetto Marcello Piacentini nel racconto di Luigi Prestinenza Puglisi.
La più bella, profonda e insolente critica a Marcello Piacentini l’ha scritta Bruno Zevi il 29 maggio 1960. Cioè a undici giorni dalla morte. “Nel 1925” ‒ dice Zevi dell’architetto che per lungo tempo era stato il dominus dell’architettura in Italia ‒ “Piacentini era in grado di far compiere all’architettura italiana una svolta capace di reinnestarla nel circuito europeo. Aveva i giovani dalla sua parte: i vecchi lo adoravano e comunque lo proteggevano… A questo punto invece si esaurisce il contributo… I motivi che determinarono, all’età di 44 anni, la morte dell’architetto sono materia di psicologia… In compenso? Fu accademico d’Italia, preside della facoltà di architettura, despota incontrastato del regime, capo di una scuola di cui si può dire soltanto che i seguaci sono peggiori del maestro… Per questo, nel momento in cui Piacentini ci lascia dopo una lunga malattia che ha sedato rancori e vanificato le polemiche, val meglio ripensare al giovane che possedeva ogni requisito per diventare uno dei più qualificati architetti europei e perì a 44 anni”.
Credo non si possa dire di meglio sul personaggio. Eppure c’è sempre stato qualcosa in queste affermazioni che non mi convinceva. Perché il giudizio morale si sovrappone a quello architettonico. Il Piacentini lodato da Zevi è il progettista ante 1925, cioè quello delle palazzine che si rifacevano alla tradizione eclettica, viennese e finanche liberty, quale la palazzina Allegri a via Nicotera o le abitazioni in via Porpora, tutte a Roma. Opere che al massimo gli sarebbero valse una citazione distratta in qualche testo di storia dell’architettura. Ma che certo hanno poco a che vedere con l’operazione importante che Piacentini svolse: mettere in chiaro, con dei testi architettonici, il linguaggio del potere, misurandosi abilmente sia con la grandezza sia con la povertà di un ventennio che ha portato l’Italia alla vergogna delle leggi razziali e al disastro di una guerra mondiale, ma anche al boom edilizio e a un tentativo di modernizzazione, sia pure ambiguo e all’italiana.
MARCELLO PIACENTINI E LA STORIA
Insomma: nessuno rappresentò il fascismo e l’Italia, compresa l’Italietta della borghesia di quegli anni, meglio di lui. Ed è su questa produzione che occorre giudicarlo, il resto è poca cosa, opera giovanile. Dire che morì nel 1925 è un brillante artificio per calcare la mano sul giudizio negativo: esagerando, sarebbe come dire che Mussolini sarebbe stato un buon giornalista e Hitler era un promettente acquerellista.
Certo, se il metro che determina la bravura di un architetto è la sua capacità di prefigurare il futuro, il giudizio su Piacentini non può essere che negativo. Piacentini rappresenta, e bene, il suo presente. E lo fa con una abilità straordinaria di gestione delle relative contraddizioni. La principale delle quali gli veniva dall’ideologia del regime: voler essere allo stesso tempo antichi e moderni, proclamare di essere i discendenti dell’impero romano e insieme i costruttori di un nuovo mondo futurista e razionale (si noti che futurista e razionale sono anche in architettura termini che stanno insieme con difficoltà). Una nazione che puntava all’austera semplicità e nello stesso tempo all’opulenza e alla monumentalità. Un Paese che non disdegnava la modernità, anzi che era informato su quanto di meglio si andava facendo in Europa. Nello stesso tempo Piacentini era impegnato nell’impresa impossibile di tranquillizzare e mettere da parte i tradizionalisti e i reazionari, quelli scatenati, alla Ugo Ojetti per capirci. Provate voi a combinare tutti questi input e a dare una risposta. Piacentini la dette e ci costruì una scuola. Per riuscirvi occorreva un controllo pressoché perfetto del mestiere: della composizione, dello spazio e del dettaglio. Costruì tanto, troppo. Con opere, non tutte della stessa qualità, ma diverse delle quali hanno segnato le principali città italiane. Qualcuno ha calcolato che riuscì a realizzare quanto lo studio Foster oggi: sicuramente una esagerazione, forse una balla come quando si dice che in Italia si custodisce il 70 per cento delle opere d’arte al mondo, ma serve a dare un’immagine della sua onnipresenza.
Liquidarlo come morto nel 1925, direi proprio di no. Ecco cosa non mi convince della abilissima costruzione retorica di Zevi: il “sarebbe potuto ma non lo è stato”. Una mancanza di onore al nemico. Un metterlo ai margini della storia. Un po’ come se avesse detto: “Se avesse negato sé stesso sarebbe stato un grande architetto, il resto dimentichiamolo”.
Una posizione comprensibile in un personaggio come Zevi, che visse la tragedia di quegli anni e seppe usare la spada della cultura per vendicarla, ma meno condivisibile dalle generazioni successive, che però ‒ mi sembra ‒ troppo sovente sono cadute nell’equivoco opposto. E hanno voluto vedere Piacentini come un progettista di grandezza pari a quella dei protagonisti del Movimento Moderno. Dimenticando lo spartiacque che divide chi celebra il presente da chi ha la capacità di prefigurare il futuro, dandogli forma.
ARCHITETTURA E CONSENSO
In fondo Piacentini aveva ragione a sostenere che l’architettura moderna, così come era proposta dalle avanguardie europee, era irragionevole. E che, in fondo, il vero funzionalista era lui. I suoi edifici hanno infatti resistito benissimo al tempo, e sicuramente hanno voluto molte meno manutenzioni di quelle richieste dalle tante case, disegnate alla tedesca o alla francese con forme elementari, e rivestite in intonaco pitturato. Vogliamo mettere, per esempio, la Casa del Mutilato con il Weissenhof siedlung? Dimenticava però che il futuro non si costruisce con il buon senso del ragioniere, ma attraverso le visioni che solo in secondo tempo troveranno buona realizzazione tecnica.
Dove, poi, non c’è partita è nel riscontro dell’utenza. Sarebbe come paragonare la fortuna di un’aria di Andrea Bocelli a quella di un pezzo di musica dodecafonica.
O, tanto per citarne uno, il successo popolare del pittore Renato Guttuso con quello limitato ai soli intenditori di Lucio Fontana. Né possiamo pretendere che Mina oppure Orietta Berti, che sono nel loro genere bravissime, si mettano alla guida della canzone italiana impegnata, ma non per questo evitiamo di apprezzarle.
Piacentini come, del resto Speer, è un bravo architetto ma costruisce le architetture come strumento di consenso. E rappresenta il potere nell’unico modo in cui il potere sarebbe riuscito a vedere sé stesso. Anzi, rispetto a Speer, che assecondava le peggiori derive monumentali di Hitler, Piacentini mostra una maggiore abilità formale, una innegabile capacità combinatoria. Sa complicare il gioco, sicuramente perché Mussolini una qualche apertura per le stranezze della contemporaneità ce l’ha. La casa della sua amante, Claretta Petacci, disegnata alla fine degli Anni Trenta da Monaco e Luccichenti, è un bel pezzo di architettura contemporanea che cita Le Corbusier e Mies van der Rohe. E non a caso anche Le Corbusier, ma senza essere ricevuto, va da Mussolini nel 1934 a cercare lavoro.
È forse questa calcolata sfrontatezza nel mescolare nuovo e vecchio, sia alla scala edilizia che a quella urbanistica, che rende Piacentini un prodotto italiano. Un democristiano ante litteram. Basti citare per tutte la città universitaria a Roma, con inviti a Ponti, Pagano ‒ direttori delle due riviste di architettura antagoniste alla sua linea ‒, che possiamo leggere sia come una straordinaria abilità di corruzione del fronte contrapposto, sia come un saper giocare con quella complessità e contraddizione di apporti molteplici che riesce a dare perfettamente forma a una dittatura ideologicamente politeista come quella di Mussolini. In fondo la linea di confine tra opportunismo e generosità, anche per i grandi architetti, è molto sottile. Piacentini non è morto nel 1925, forse vive tuttora.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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