“I am an artist who makes walks”, ha detto di se stesso Richard Long, uno dei più noti esponenti della Land Art. Se il camminare, il viaggio, il perdersi sono intrinseci all’arte ambientale, Desert X, la rassegna in corso nel deserto della Coachella Valley, è la quintessenza di un’esperienza artistica definita dal percorso e dai luoghi. La seconda edizione di questa biennale si espande su un’area di circa novanta chilometri, con opere site specific create da diciotto artisti e disseminate tra i surreali paesaggi desertici della California del Sud. Vederle tutte è impresa non facile e l’esperienza, un po’ viaggio un po’ caccia al tesoro, non può che essere personale, diversa per ogni visitatore. Nei fine settimana sono disponibili visite guidate in pullman, mentre per chi vuole organizzarsi per conto proprio la raccomandazione è di prendersi almeno un paio di giorni. Non solo perché le opere sono tante e distribuite in tutta la valle, ma perché il deserto invita a fermarsi, a riempirsi gli occhi dei suoi spazi immensi e le orecchie dei suoi silenzi. Lungo il percorso di visita, a segnalare che si è in prossimità di una delle opere, sono i cartelli con la distintiva X che è il logo della rassegna e che ricorda i segnali stradali che indicano che una corsia della strada è chiusa e bisogna cambiare rotta. Ma poi l’opera va trovata, bisogna avventurarsi, camminare, a volte perdersi.
DESERT X
La prima opera della nostra personale esperienza di visione di Desert X la incontriamo per caso, quando, appena arrivati a Palm Springs, andiamo al visitor center per raccogliere informazioni sulle architetture moderniste della città. Ai piedi della montagna, sull’arida pianura dietro l’edificio che ospita il centro informazioni, sullo sfondo di un cielo azzurro attraversato dalle rapide nuvole del deserto, uno schermo a retroproiezione rimanda l’immagine di una bandiera composta da strisce di fumo nero che fuoriesce dall’asta. È l’opera di John Gerrard, Western Flag, che raffigura, con una simulazione digitale, il sito del primo grande giacimento di petrolio scoperto nel 1901, in Texas. Il pozzo è oggi esausto, ma quando fu scoperto conteneva una tale quantità di petrolio a una tale pressione da provocare la fuoriuscita di combustibile a un’altezza di ottanta metri da terra per ben nove giorni. Trasportata nel paesaggio desertico della Coachella Valley, l’immagine creata da Gerrard appare come una sorta di monumento distopico.
Il giorno dopo ci mettiamo in viaggio alla ricerca delle altre installazioni che compongono la biennale. Guidando sui rettilinei circondati dalla sabbia, a volte basta guardarsi intorno per scoprire un’opera. È così che troviamo il lucido parallelepipedo arancione di Sterling Ruby. In netto contrasto con il paesaggio, la superficie uniforme e riflettente di SPECTER appare come una visione, un’allucinazione del viandante. Visibile dalla strada, all’interno di un piccolo centro abitato, è anche Going Nowhere Pavilion #01 di Julian Hoeber, una struttura in mattoni di cemento in sfumature dal rosa al marrone che compongono uno spazio in cui l’interno e l’esterno si intersecano e confondono, in una rappresentazione del rapporto tra spazio costruito e spazio mentale.
In altri casi per trovare le opere bisogna lasciare l’auto e camminare tra dune e arbusti, senza la certezza di dove si stia andando. L’emozione della scoperta, allora, è ancora più forte. Ci capita quando arriviamo in vista della meravigliosa Ghost Palm di Kathleen Ryan, un’enorme palma di materiale plastico trasparente che con il vento si muove e produce una leggera sinfonia di rumori che cambiano al cambiare del vento. La luce si riflette tra le foglie della palma, illuminandola come fosse accesa e inondandola di un’aura mistica.
Western Flag (Spindletop, Texas) 2017 : midday from johngerrard on Vimeo.
NELLA COACHELLA VALLEY
Sfortunatamente non possiamo fare affidamento sulla app creata dall’organizzazione, disponibile solo per iPhone (siamo androidiani convinti) e solo dopo esserci persi diverse volte, capiamo che i numeri indicati sul programma al di sotto dei titoli delle opere sono coordinate che, inserite su Google Maps, consentono di localizzare le installazioni con una ben maggiore precisione di quella degli assurdi indirizzi di località dove le posizioni sono identificate da incroci tra strade sterrate e i numeri civici sono spesso a cinque cifre.
Ci vuole più di un’ora di macchina, sulle inaspettatamente trafficate strade che attraversano la valle, per arrivare nell’area che ospita un altro folto gruppo di opere, nella parte sud della Coachella Valley. Da un pianoro battuto dal sole emergono le sagome delle scalinate create dall’artista colombiano Iván Argote. L’opera si chiama A point of view ed è un’installazione che invita il visitatore a salire sulle scale, disposte in circolo su un’ampia area. L’opera riecheggia l’iconografia precolombiana, familiare all’artista. Parole incise sugli scalini in inglese e spagnolo compongono frasi enigmatiche mentre si sale verso l’alto. Il visitatore diventa parte del paesaggio e di un sistema di rimandi tra un punto e l’altro dell’installazione. La disposizione delle scale ricorda una meridiana, evocando il concetto di tempo e di frammentazione, caricato dai significati di un’area dall’antica e complessa storia geologica.
Ai piedi del pianoro, visibile dalla cima delle scale, una distesa d’acqua. È il Salton Sea, un bacino endoreico creato da una violenta esondazione del Colorado River che, all’inizio del secolo scorso, ricoprì d’acqua un’area di mille chilometri quadrati di deserto. Negli Anni Cinquanta i progetti di sviluppo turistico dell’area si scontrarono con l’inquietante scoperta degli altissimi livelli di inquinamento delle acque che, contaminate da scarichi industriali e agricoli e senza possibilità di ricambio, hanno subito una crescente concentrazione di sostanze inquinanti, tanto che oggi le sponde del lago sono completamente abbandonate.
OPERE E PAESAGGIO
Circondata dalle montagne, la spiaggia bianca dirada verso acque dall’aspetto oleoso e punteggiate da minuscole isolette. Sulla riva, emergono dal lago le creature ibride nate dalla fantasia di Cecilia Bengolea. Mosquito Net è un’installazione e una performance in cui l’artista riflette sui processi di ibridazione scaturiti dalla pressione antropogenica e sulle conseguenze evolutive di questi processi. Le sagome “incollate” sul paesaggio creano un bestiario tra sacro e profano, antico e moderno, con cui l’artista, durante le performance, interagisce in una danza che invoca gli spiriti della natura.
Lasciata la spiaggia, sulla strada che costeggia il lago, tra negozi abbandonati e yacht club fatiscenti, incontriamo Halter, di Eric N. Mack, una stazione di servizio vestita di tessuti a motivi geometrici che si muovono al vento svelando e incorniciando le geometrie dell’edificio e creando una architettura vivente. La struttura ricorda una tenda beduina, in contrasto con la funzione originaria dell’edificio. Purtroppo, a un mese dall’apertura della rassegna, il 10 marzo, i tessuti, che erano stati donati all’artista da Missoni, sono stati dati alle fiamme da ignoti, lasciando spoglio lo scheletro della vecchia stazione di servizio.
Seppure non in modo altrettanto inaspettato e violento, anche le altre opere che compongono Desert X seguiranno lo stesso destino di Halter e spariranno silenziosamente dal paesaggio, cancellate dal deserto, quando Desert X si concluderà, il 21 aprile, in coincidenza con la chiusura del popolare festival musicale Coachella. Ma, per poco più di due mesi, questa rassegna unica nel suo genere avrà riempito questi luoghi creati dalla possente forza della natura con la magia della creatività umana.
‒ Maurita Cardone
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati