Dalla pittura alla teoria e ritorno. Intervista a Renato Barilli
Ha appena inaugurato a Roma, negli spazi della galleria La Nuova Pesa, la mostra “Visti da vicino”, che racchiude una selezione di opere pittoriche di Renato Barilli. Si tratta di una serie di ritratti dedicata prevalentemente a personaggi del mondo dell’arte e realizzata a partire da immagini fotografiche. Il famoso critico d'arte bolognese, tornato ai pennelli dopo mezzo secolo di attività teorica, ce la racconta in questa intervista.
Hai praticato la pittura durante la tua giovinezza, per poi abbandonarla, a favore della critica e della teoria, per quasi cinquant’anni. Cosa ti ha spinto a tornare alla tela?
C’è una ragione molto semplice che mi ha spinto a riprendere in mano i pennelli, il fatto che essendo io ormai un ultra-ottantenne, devo registrare ogni momento la morte di qualche mio coetaneo, cui magari proprio su Artribune rendo un commosso omaggio. E dunque, visto che in altri momenti della mia esistenza ho speso del tempo nella pittura e vi ho acquistato una indubbia capacità tecnica, ho pensato che non potevo andarmene da questo mondo lasciando interrotto questo mio capitolo. Se si vuole una risposta in termini più solenni, dovevo rispondere di un dono ricevuto da natura.
La figura del critico e quella dell’artista si sono sovrapposte poche volte nella storia, seppur con valide eccezioni. Nel tuo caso questi due percorsi come sono correlati?
Mi permetto di dissentire su questa pretesa inevitabile dissociazione tra il critico e l’artista. In proposito io mi valgo di una similitudine, se si vuole molto elementare: mi riferisco a quanto accade al feto umano, che fino a un certo mese del suo sviluppo è incerto se incanalarsi verso l’assunzione del sesso maschile o di quello femminile, prendendo poi una delle due strade, ma con tante soluzioni intermedie, cui oggi giustamente siamo molto attenti. E del resto, ricorrendo a un’altra similitudine, la dialettica tra il maschile e il femminile è molto simile alla bipolarità creata dal magnetismo, tra il Nord e il Sud, tra cui non esiste una demarcazione netta; su ogni punto della Terra viene esercitata una influenza dell’uno e dell’altro tipo, seppure in quantità diverse. Lo stesso accade nella questione tra il critico e l’artista. Non credo assolutamente che il primo sia “negato” per natura a fare arte, o che se vi si cimenta, vi si dimostri un maldestro, mentre l’altro a sua volta sarebbe negato a fare uso della teoria. Siamo sottoposti all’influsso di entrambi questi poli, anche se poi intervengono delle scelte, qualche volta anche dettate da ragioni pratiche, per cui ci si butta da una parte o dall’altra, ma mantenendo sempre una certa ambiguità, e perfino reversibilità tra i due poli.
Per eseguire i ritratti utilizzi come materiale di partenza delle fotografie fatte con lo smartphone. La visione, dunque, prima di arrivare alla tela, passa per l’obiettivo…
Come alibi per questo mio ritorno, diciamolo pure, a una forma d’arte molto tradizionale, molto “rétro”, mi attacco alla fotografia, oggi imperversante. Chi non la fa, e proprio col mezzo tanto semplice del cellulare? Questo approccio così diretto al vero, al reale, mi sembra che eserciti una specie di attrazione, come se un astro fosse comparso nel nostro cielo, esercitandovi un effetto imprescindibile.
Come storico dell’arte contemporanea ti sei confrontato con il distacco degli artisti dalla descrizione della realtà fenomenica, e con il conseguente diffondersi dell’astrattismo, dell’arte concettuale e della performance. Ora che sei tornato all’attività artistica in prima persona, hai scelto la strada della figurazione. Puoi spiegarci questa scelta? Pensi che oggi abbia senso tornare alla rappresentazione?
Ero pronto a dire, e l’ho detto per decenni, che a un certo punto della storia, l’arte aveva lasciato alla fotografia il compito di registrare il reale, avventurandosi per parte sua sulle strade dell’astrazione e simili. Ora invece l’influsso che il reale esercita su di noi tramite la foto è enorme, imprescindibile. Naturalmente, come dico ogni volta che mi presento su un catalogo, cerco poi di interpretare l’esito fotografico che ottengo col cellulare, soprattutto cerco di ridare sostanza ai vari aspetti delle immagini, e quindi faccio in modo che le epidermidi riacquistino spessore, volume, sensualità, lo stesso si deve dire anche per gli abiti, per gli oggetti circostanti, eccetera. Naturalmente una opzione del genere mi porta a sentirmi vicino a quanto si riscontra presso certi artisti molto rinomati, penso per esempio a David Hockney, o a Alex Katz, o in genere a un rilancio di modalità espressioniste che compaiono sempre più spesso in giro per il mondo. Ma non rinnego affatto quanto ho difeso nella mia lunga carriera, e dunque ritengo che al giorno d’oggi le vie dell’arte siano numerose, aperte a un gran numero di soluzioni.
‒ Valentina Tanni
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati