Gli artisti e la ceramica. Intervista a Lorenza Boisi
Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata al legame fra gli artisti e la ceramica. Stavolta la parola va a Lorenza Boisi.
Lorenza Boisi (Milano, 1972) interviene all’interno della rubrica dedicata alla ceramica con generosità e passione, due caratteristiche che accompagnano la sua attività da artista e da “agitatore culturale”, come spesso si è definita. Un percorso lontano da tendenze, gruppi e schieramenti, ma densamente popolato da maestri, gatti e compagni di lotta.
Parlando della tua pittura hai spesso fatto riferimento alla tua fascinazione per i grandi maestri, con aperture verso l’Art Brut. Posso chiederti quali siano invece i tuoi riferimenti per la ceramica?
La mia formazione artistica è stata particolarmente erratica, discontinua e piuttosto casuale, i miei referenti visuali e storici, altrettanto caotici, in bilico tra l’ortodossia manualistica, la flanella culturale e gli accenti di un’incidentalità non necessariamente felice. Porto con me molti “vizi”, molte distorsioni, molta “materia-altra”. Talvolta soffro della mia mancanza di solide fondamenta e strutture autoctone, del non aver mai veramente sviluppato un sistema filologico e integrato di piccola artista italiana.
La mia visione ceramistica arriva da molto lontano, dal posto che è intimamente il più vicino possibile; dai bassorilievi di arredo urbano e architettonico della Liguria e della Milano della mia infanzia, alle mostre di fine d’anno degli studenti della Scuola Cova di Milano, dove mio zio Carlo Cervieri, un eccellente grafico e creativo italiano, attivo tra gli Anni Sessanta e la fine degli Anni Ottanta, fu professore, passando per le molte opere dissennatamente collezionate da mio padre, di cui mantengo geneticamente lo spirito culturalmente divertito, per il gusto di una forma, una soluzione, un colore, un’empatia con il pieno e il vuoto, per la forma chiusa, aperta, organica o platonica di ceramica.
Sono loro, dunque, i tuoi modelli.
Autori, manifatture, studenti, amatori e artigiani, noti o sconosciuti, finissimi interpreti di una capacità o naïf assoluti. La mia affettività ceramica viene da un impianto non ordinato, un po’ come tutto quello che sono. Scrisse Guido Piovene della ceramica che “… si presta, forse meglio che ogni altro mezzo, a esprimere gli artisti fortemente emotivi…” e questa è indubbiamente una conclusione che mi calza “a miretta”. Sia come autore sia in quanto appassionata precoce, che ha amato sin da subito una materia, talvolta sbagliando, certo senza la “freddezza del collezionista” tanto quanto Piovene, tanto quanto mio padre.
E poi come si è evoluta questa tua passione?
Nel divenire e per necessità professionali, nonché per la nascita di una “grande passione”, nell’anagrafica maturità mi sono avvicinata alle figure storiche della ceramica italiana del Novecento, i grandi, i grandissimi, i minori e i mediocri. Amo autori diversi, soprattutto coloro che si sono avvicinati alla ceramica con la volontà di uno scultore, talvolta piegato al mandato di serialità o di attrattiva popolare, ma con lo spirito di uno demiurgo materiale e che asseconda, plasma, provoca o seduce la terra, in assoluta comprensione del media e dell’alchimia tettonica.
Sarebbe faticoso e stolidamente pedante voler enunciare una top list dei miei preferiti. Messi a parte i grandissimi noti e riconosciuti, posti in una collocazione privilegiata storicamente i grandi pittori che si appropriarono della ceramica per farne lo sfogo del loro ingegno e giustificare, dove altrimenti impossibile, i balzi di umore stilistico in avanti o indietro, restano nomi del mio quotidiano: Biancini, Fancello, Broggini, Campi, Andlovitz, Nobile, Melotti, Zauli, Jorn, Leoncillo, Cherchi, Melandri, ma anche le escursioni ceramistiche dei protagonisti di Corrente. Insomma… se non tutti, quasi tutti. I ceramisti e gli artisti ceramisti mi piacciono un po’ come mi piacciono i gatti. Mi piacciono tutti, tra questi mi piacciono meno gli esemplari a pelo lungo, troppo bizantini e barocchi, preferisco il pelo raso, le forme affilate o rilassate, impresse di fervore materico che è espressione di “emotività concettuale”, un enunciato che farà rabbrividire tutti i normalizzati della lettura artistica ma che è, in sé, assoluta biologica quotidianità dell’artista.
L’autoritratto è uno dei temi portanti della tua ricerca. Vita e opera sembrano fusi indissolubilmente, ma senza alcuna necessità di rappresentare in maniera fedele gli accadimenti. Come procedi in questo equilibrio tra vita e narrazione della stessa?
Nuovamente ecco la risposta: emotività concettuale. Parlo di me, irrimediabilmente compromessa da uno Jungianesimo irrisolvibile, sempre solo di me e di tutto quanto circonvolge attorno alla mia esistenza, alla mia coscienza. Racconto per simboli e dominanti, figure retoriche, proiezioni, trasfigurazioni e concessioni narrative, un universo di palinsesto personale, certamente noioso quanto la vita di ogni altro e, forse, immeritevole di tanto sforzo.
Io sono sola, completamente sola, rendo tangibili e fissati nel tempo i miei ricordi, ricordi che non condivido più con alcuno che sia di questo mondo, forse per il gran terrore di scordarmeli anche io. Il mio universo affettivo e fattuale è sfumato in brevissimi anni, prima che mi potessi accorgere d’essere condannata a perderlo per sempre. Credo di essere artista per dare corpo al sentore invisibile di quanto sia stato visibile per coloro che non esistono più, almeno non in corpo fisico. Ogni mia opera racconta un ricordo, è esternazione di una mia natura, di un mio umore, è tragicamente banale, ma la tragedia è cerimonia degli uomini e degli dei.
Muovendoti dalla pittura alla ceramica hai sempre mantenuto salda una certa costante: lo stretto dialogo tra ricerca accademica e pratica artistica. Come convivono questi due elementi all’interno della tua quotidianità in studio? La frequentazione della formazione DAS – Diploma Avanzato di Studi Superiori del REAL-CERCCO/HEAD di Ginevra è stata la naturale evoluzione di questo approccio? La decisione adulta dell’iscrizione al CERCCO di Ginevra è stata naturale conseguenza di una spiccata pulsione verso le dinamiche dell’apprendimento e il desiderio di una completa autonomia tecnica, che sola offre la possibilità di comprendere il medium e le sue aperture e la propria iniziativa, la propria direzione.
Il tempo passato al CERCCO è stato, insieme al conseguimento del mio anno preparatorio presso la Leith School of Art di Edimburgo, più di vent’anni fa, il tempo meglio speso della mia vita, il più proficuo, il più utile, il più appassionato.
Cosa ti aspettavi quando ti sei iscritta e cosa senti di avere portato con te da quell’esperienza?
Nella ceramica, la conoscenza tecnica di base è fondamentale, l’opera di un artista che si avvicina senza conoscere il comparto ceramistico presenta sempre una povertà fondativa di cui, spesso, si cerca di fare virtù senza riuscirvi. Io non mi avvicino, nemmeno da lontano, alla competenza del “ceramista finito” e il mio lavoro non approfondisce il potenziale tecnico o virtuosistico tipico di molta ricerca ceramica, ma non lo ignora. La semplicità del mio lavoro è una decisione consapevole, non compromessa o forzosa. Il CERCCO mi ha permesso di produrre opere di grandi dimensioni, approfittando di una strumentazione eccellente, mi ha dato uno studio, i materiali chimici, le terre, i molti forni e l’assistenza di grandissimi esperti, affiancata da importanti figure della ceramica svizzera contemporanea, mi ha avvicinato a colleghi da tutto il mondo, con background radicalmente diversi che, essi in primis, hanno contribuito ad accrescere la mia consapevolezza e a rendere più orientate le mie scelte.
Come nella vita, detesto dipendere da un altro soggetto per la continuità del mio andamento, volevo essere capace e autonoma nell’uso della ceramica. Il CERCCO mi ha dato questa possibilità. Non avrei mai potuto demandare la realizzazione del mio lavoro a un ceramista o a un collega. Diciamo che non sono “quel tipo di artista”, sono il tipo di artista che vuole morire con la sua opera, opera che morirà con lui, perché da lui medesimo essa si dipana, prende vita e matura, estensione del suo corpo e delle sue mani, l’artista Sapiens Faber.
Nella breve panoramica esaminata fino ad ora abbiamo incontrato chi lavora in stretta produzione con le eccellenze artigiane italiane per progetti complessi (Salvatore Arancio), chi ha iniziato a lavorare la ceramica dopo molti anni di pittura (Alessandro Pessoli), altri che hanno visto nella ceramica un ritorno alla formazione scultorea (Francesco Simeti) e infine chi ha avvicinato il materiale solo recentemente in seguito a una residenza (Ornaghi & Prestinari). All’interno di questo scenario, la tua posizione sembra essere del tutto peculiare: ti sentivi più sola quando la usavi in un panorama sostanzialmente disinteressato a questo linguaggio o adesso?
Possono essere centomila gli artisti che lavorano o pretendono di lavorare la ceramica, tutto è assolutamente legittimo, ma io non mi sento sola, io sono sola, nel mio essere e fare, e va benissimo. Siamo tutti soli, in un certo senso.
Ho cominciato a lavorare, molto placidamente, la ceramica alla Villa Arson vent’anni fa, senza una vera guida, se non un’inintelligibile maestra ceramista giapponese. Poi, per alcuni anni, nel mio vagabondare tra diverse istituzioni, Paesi e collocazioni professionali, sono rimasta lontana dalla pratica per via dell’impossibilità di accesso a facilità tecniche adeguate. Sono tornata alla ceramica grazie alla straordinaria Aida Bertozzi, grazie all’accoglienza del Museo Carlo Zauli, all’amicizia di Matteo Zauli e all’aria faentina, alle maestranze di Faenza, al suo forziere universale, circa dieci anni orsono.
Come è cambiato il tuo rapporto con la materia negli anni?
Il mio rapporto con la ceramica si è trasformato attraverso la mia pittura e, soprattutto, esso stesso ha trasfigurato il mio approccio alla tela e al colore, che si è fatto “meno tedesco” e più arrendevole, meno pudico delle sue sensuali fragilità. Alla mia età non mi preoccupa più, ammesso mi sia mai interessato, che si voglia fraintendere il mio lavoro quanto versamento nella decorazione o che sia, in qualche modo, superato. Lo è certamente, è superato da più di cento anni, oggi il mio lavoro è un’ucronia, il tipico lusso di chi non abbia mai soddisfatto gli standard di nessuno, se ne sia fatto una santa ragione liberatoria e ne faccia un vezzo un po’ irriverente.
La particolarità del tuo percorso artistico è ormai legata a doppio filo anche al tuo lavoro di “agitatore culturale”, come spesso hai deciso di definirti. Quali sono gli elementi di continuità tra l’esperienza di MARS e la direzione artistica del MIDeC? In che modo la pratica di “agitatore” incontra, arricchisce o limita la tua ricerca come artista?
Cominciamo dal tempo, che è poco. Troppo poco per riuscire a essere tutto quanto si sia per davvero. Pur limitando al massimo le proprie ambizioni, il tempo di una vita umana è estremamente breve, soprattutto per chi, come me, questa vita l’abbia spesso cercata di strappare via con i denti e con le unghie, per gettarla in fondo a un pozzo. Sono specialmente i sopravvissuti ad accorgersi di come sia breve la vita che resta, dopo il risolvimento (forse solo temporaneo) della loro terribile vocazione alla fine.
Ho dato molto al sistema dell’arte italiano, ho dato tutto quello che il sistema dell’arte non voleva, riteneva di non dover confrontare o di poter eludere. Ho generato, me lo dico da me, tutto un mondo e un modo di testimonianza, offrendo l’esemplificazione di come, senza mezzi e con grande nonchalance, con tutto il “neo- skinny fighettame provincialino italiota” contro, si possa fare l’impossibile, anche in Italia.
Spiegaci meglio.
Ho agitato, ho realizzato, ho provocato, ho ispirato sfortunati emulatori, gente che si è presa il modello più sbagliato, il più fallimentare. Mi è servito professionalmente? No.
Ci sono curatori che mi apprezzano e molti che mi fraintendono, colleghi che mi stimano e colleghi “modernissimi” che mi deridono, i “figliocci di…” mi detestano, più generalmente alcuni mi amano e taluni mi evitano. Bilancio una carriera apprezzabile e una tipica damnatio vitae professionale, la tradizionale terapia detrattiva di avulsione che subiscono gli artisti o i pensatori scomodi, gli inclassificabili e gli antipatici. Mi interessa? No. Sono bellissima, certo non nell’aspetto, ma, a mio modo, sono straordinariamente bella, poiché sono in me e per me, indipendentemente da tutto, senza l’avallo, l’ausilio o il permesso di nessuno.
Tutte le persone che hanno lavorato e combattuto con me: Yari, Fabio, Andrea, prima ancora Antonio, Nicola e molti altri, insieme a tutti gli operatori volontari collaterali, quale la preziosa Elena, sono bellissimi anche loro, bellissimi più di me, perché si sono avvicinati a un’iniziativa altrui, riuscendo a migliorarla e incrementarla, nonostante partisse da un soggetto di forte criticità personale, quale io sono.
Quali sono state le sfide più grandi?
Lavorare nel non profit assoluto è stato il più grande insegnamento di tattiche di sopravvivenza e strategia di resistenza che una vita modestamente borghese potesse offrirmi in tempi di pace. Arrivare a un museo civico, un ente pubblico con una mission conservativa e divulgativa, pur con nuove sfide e nuove difficoltà, è stato comunque uscire dalla trincea e poi, invito tutti a vederlo da sé, il MIDeC di Laveno è un luogo assolutamente magico e il mio ufficio guarda direttamente il lago negli occhi.
Il tempo è scarso, ai miei cinquanta mi ritirerò a vita privata dedicandomi soprattutto alla mia ricerca artistica e, credo solo allora, capirò se avrei fatto meglio a impegnarmi di più nell’ammazzarmi, oppure è stato destino che non ci si mai riuscita.
‒ Irene Biolchini
Gli artisti e la ceramica #1 ‒ Salvatore Arancio
Gli artisti e la ceramica #2 ‒ Alessandro Pessoli
Gli artisti e la ceramica #3 ‒ Francesco Simeti
Gli artisti e la ceramica #4 ‒ Ornaghi e Prestinari
Gli artisti e la ceramica #5 ‒ Marcella Vanzo
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