Artisti da copertina. Parola ad Andrea Bocca
Andrea Bocca nasce a Crema nel 1996 e vive a Crema e Milano. Ha svolto una residenza a Milano presso Viafarini e ha vinto il premio San Paolo Invest di Treviglio, che si concluderà con una mostra personale. Nel 2018 ha partecipato al workshop “Marcello Maloberti. È il corpo che decide” al Museo del Novecento di Milano per Furla Series. Tra le sue recenti collettive: “Il paradigma di Khun” alla Galleria Fuoricampo di Siena e allo Studio 02 di Cremona, e nel 2017 la mostra “The Great Learning” alla Triennale di Milano. Dal 2016 fa parte del collettivo DITTO. È sua la firma della cover del nuovo numero di Artribune Magazine.
Da sempre affascinato dal mondo del lavoro, dell’edilizia, dei cantieri, della produzione industriale, delle fabbriche intorno alla sua città (Crema), ora per lo più abbandonate, Andrea Bocca ha cominciato a 15 anni come graffitista per poi diventare un autentico erede del Minimalismo. Crea moduli, unità, oggetti con fare preciso, attento a ogni minimo dettaglio, fino alla maniacalità. Di recente ha iniziato a realizzare grandi stampe su lino grezzo impiegando la cianografia, una tecnica piuttosto obsoleta nell’era digitale. Ha stampato prototipi di frammenti architettonici ripresi da siti internet per addetti ai lavori. Il risultato? Superfici apparentemente pittoriche in cui la bidimensionalità convive con effetti tridimensionali sorprendenti e inaspettati.
Quando hai capito che volevi fare l’artista?
A 15 anni mi sono avvicinato al mondo degli street writer. Al tempo era la mia forma d’arte.
Hai uno studio?
Sì, lo condivido con un amico e artista.
Quante ore lavori al giorno?
Non saprei quantificarle.
Preferisci lavorare prima o dopo il tramonto?
Preferisco la mattina per lavorare, la sera per progettare.
Che musica ascolti, che cosa stai leggendo e quali sono le pellicole più amate?
Ho sempre ascoltato rap americano, soprattutto dell’East Coast, anche se apprezzo molto il trip hop e in generale la black music. Sto rileggendo L’uomo artigiano di Richard Sennett, La scultura lingua morta e altri scritti di Arturo Martini e alcuni scritti di Henry Moore e Anthony Caro. Come pellicole direi Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone e gli infiniti gadget nei film di James Bond.
Un progetto che non hai potuto concretizzare ma che ti piacerebbe fare.
Preferisco trovare sempre la soluzione più adatta per ogni progetto.
Qual è il tuo bilancio fino a oggi?
Soddisfatto, anche se dicono che dovrei essere meno rigido.
Come ti vedi tra dieci anni?
Spero con ancora tutti i capelli.
Cosa ti è rimasto dell’esperienza di street writer?
L’amore per i luoghi in disuso e il legame con l’architettura.
Sei interessato al mondo del lavoro, ai vecchi macchinari, all’edilizia, ai cantieri, alle fabbriche intorno alla tua città, ora abbandonate. Da che cosa nasce questo interesse e come si formalizza nelle tue opere?
Sono nato e cresciuto tra la campagna e la grande città. Entrambe mi affascinano per le loro caratteristiche opposte e controverse. In questi luoghi, a metà tra passato e futuro, entrambe le condizioni convivono in maniera non conflittuale, seminando tracce di un’industrializzazione in continuo mutamento. Lo sguardo non può far altro che posarsi su determinati elementi. L’immaginario rurale si fonde con quello industriale/urbano creando un magazzino di forme da cui attingere e rielaborare continuamente. Spesso si rigenerano per andare altrove, pur strizzando sempre l’occhio al loro punto di partenza. Sono attratto dai macchinari edili erosi dal tempo, antiche creature mitologiche la cui natura affascina e spaventa allo stesso tempo.
Sei un erede del Minimalismo. Impieghi moduli, unità che assembli con un’attenzione al dettaglio quasi maniacale.
La parte progettuale di ogni lavoro diviene fondamentale per lo sviluppo del lavoro stesso. Come lo è la ricerca dei materiali e delle forme. Spesso mi avvalgo della collaborazione di artigiani ed esperti, pur mantenendo un fattore incontrollato e di scoperta determinato dal processo, svincolandomi da un aspetto prettamente tecnico e conferendo un valore aggiunto al lavoro finale.
Le tue opere hanno una forte impronta architettonica.
Sono sempre stato fortemente legato all’architettura e in generale allo spazio. In alcuni casi esso diviene parte integrante del lavoro nel momento dell’installazione, come in Untitled (mezzo arco arancione), in cui la scultura viene innalzata e leggermente distanziata dal soffitto, unendo la dimensione verticale a quella orizzontale; in altri, come nel caso delle termoformature, l’elemento architettonico diviene stampo su cui modellare una nuova materia.
Di recente hai realizzato grandi stampe su lino grezzo, impiegando una tecnica ormai obsoleta. Di che cosa si tratta?
La nuova serie di lavori nasce dalla fascinazione del metodo di stampa della cianografia, una pratica utilizzata in passato per la riproduzione di disegni tecnici tracciati su carta da lucido. Partendo da una ricerca formale, ho stampato prototipi di frammenti architettonici su grosse tele di lino grezzo, ripresi da alcuni siti internet per addetti ai lavori nel campo dell’edilizia, che attraverso il processo di stampa si sono slegati dall’immaginario puramente architettonico e tecnico di partenza, assumendo una connotazione pittorica. Volevo che le forme riprodotte producessero uno strano legame con chi le guarda, che risultassero familiari ed estranee al contempo.
Com’è nata l’immagine inedita che hai creato per la copertina di questo numero?
Il lavoro è nato durante un workshop svolto al Museo del Novecento con Marcello Maloberti. La figura del guardasala, solitamente figura di controllo, è stata messa a confronto con la figura dell’operaio edile, mescolandosi a un immaginario industriale evocato dalla presenza del ferro e dall’utilizzo del colore, quale l’arancione delle maniglie. Lo scarto di fusione è divenuto attrezzo, prendendo corpo nell’incontro con la figura del sorvegliante.
‒ Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #48
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