Luogo e segni. Stratificazioni concettuali a Venezia
Punta della Dogana, Venezia ‒ fino al 15 dicembre 2019. Una mostra complessa che confonde e poi accoglie il visitatore, stimolandolo con corrispondenze, simmetrie e irregolarità. Per una riflessione su poesia, memoria e linguaggio.
La formula è semplice, accostare opere già presentate a Punta della Dogana ad altre esposte qui per la prima volta. Ma lo svolgimento è complesso: la mostra Luogo e segni è forse la più ostica, a un primo approccio, sin qui presentata negli spazi ridisegnati da Tadao Ando.
Senza scegliere un tema specifico, i curatori Martin Bethenod e Mouna Mekouar organizzano l’esposizione attorno ad argomenti come “l’interazione tra natura, creazione e poesia” e “la memoria dei luoghi”. E allestiscono un percorso di corrispondenze indirette tra le diverse opere ‒ “la mostra ha la forma di un leporello”, ha spiegato la curatrice, “con sale anche distanti che si rispondono a vicenda”.
Lo spettatore deve così impiegare la prima parte della visita per decifrare l’esposizione. Una volta entrati nell’atmosfera, non mancano momenti di apertura, lievi ma a loro modo monumentali. Nella sala centrale sono esposte ad esempio le sculture in vetro di Roni Horn, per un acquoso effetto panoramico che gioca in sottrazione.
GIOCO A INCASTRI
L’inizio del percorso è altrettanto suggestivo, con le tende di perline di Félix González-Torres che fanno da soglia iniziatica. E l’opera di Surtevant è un altro punto di respiro, ma con la stratificazione intellettuale dell’appropriazionismo (il suo lavoro ne cita alla lettera uno di González-Torres, che come detto è presente altrove in mostra). Un’altra tenda, sinuosa, suggella la mostra nella terrazza: è di Wu Tsang ed è ispirata alle atmosfere libertarie del clubbing.
E poi gli incastri, le sale fitte con accavallamenti di opere. Proprio la tenda di González-Torres è inclusa in una sequenza serrata che comprende anche Roni Horn, Louise Bourgeois, Agnes Martin, Constantin Brâncuși, Vija Celmins ‒ lavori della collezione personale di Roni Horn, che ha allestito la sala. Il percorso espositivo “ricatta” poi lo spettatore: per vedere i dipinti di Etel Adnan, musa ispiratrice, con le sue poesie, di tutta la mostra, bisogna aspettare la fine del video di Philippe Parreno, proiettato nella stessa sala.
IPERCONTEMPORANEO
Tra le diverse opere di livello spicca la riflessione post-pittorica di R.H. Quaytman: variazioni su astrazione e figura, manuale e digitale, artigianato e Fine art che danno vita a un mix davvero originale e ipercontemporaneo. E si riscoprono anche nomi sin qui trascurati, come Simone Fattal, le cui bizzarre ceramiche “ritualistiche” convivono con l’audio di una poesia di Etel Adnan letta da Robert Wilson.
Dal “cervellotico” si sfocia nel sensoriale, e viceversa. Il respiro della mostra è alternato, irregolare, antiarmonico per scelta e stratificato per vocazione. Le generazioni e gli approcci si mescolano, da Carol Rama ad Alessandro Piangiamore, dalle opere acquatiche di Nina Canell e Roni Horn fino a quelle carnali e morbose di Tatiana Trouvé ‒ oggetti iperrealistici in marmo che evocano per procura il corpo umano e la sua presenza.
‒ Stefano Castelli
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