L’epidermide della pittura. Luc Tuymans a Venezia
La monografica ospite di Palazzo Grassi getta nuova luce sulla produzione pittorica di Luc Tuymans. Riunendo oltre ottanta opere realizzate fra il 1986 e i giorni nostri.
Un lungo capitolo della storia pittorica recente si dipana fra le sale di Palazzo Grassi, allestite per tratteggiare i contorni della poetica di Luc Tuymans (Mortsel, 1958), protagonista della nuova monografica nella sede lagunare targata Pinault.
La Pelle ‒ questo il titolo scelto dall’artista guardando all’omonimo romanzo di Curzio Malaparte datato 1949 ‒ condivide con una delle fatiche letterarie più discusse del Novecento la medesima acutezza di sguardo verso l’ineluttabilità del presente. Se nel romanzo di Malaparte sono le conseguenze della guerra a lasciare un segno indelebile, e scarsamente modificabile, nella fisionomia sociale, culturale e storica di Napoli ‒ e di un intero Paese ‒ sullo sfondo del 1943, nella personale di Tuymans l’ineluttabilità è data dai dettagli, che rimandano a dinamiche umane intrise di inquietudine o a malinconiche istantanee attinte da quel bacino di “falsificazione autentica” che l’artista nomina in riferimento alla propria arte.
PITTURA E FOTOGRAFIA SECONDO LUC TUYMANS
Accostate senza seguire alcun ordine cronologico, le opere esposte delineano un immaginario che affonda le radici nella concretezza dell’essere ‒ umano, animale, inanimato ‒, aprendo scorci su universi pittorici fatti di materia e rarefazione, strati di colore fuori fuoco e nitidi richiami anatomici. Volti sospesi, quasi spettrali, emergono da fondali neutri ma necessari, che inchiodano il soggetto allo statuto pittorico, ben distinto da quello fotografico. La dialettica fra due linguaggi visivi da sempre legati è centrale nella poetica di Tuymans, che non ne fa mistero, rintracciando nello scatto una fonte di ispirazione, ma declinandolo, con abile freddezza, in qualcosa di diverso. Un’immagine pittorica, appunto, che congela linee, colori, sembianze, dando loro una forma solo in apparenza “oggettiva”. Non ci sono verità assolute nella pittura di Tuymans, il quale afferma, come riportato in catalogo da Marc Donnadieu: “Io non credo che tutte le immagini siano veritiere: non mi fido, neppure delle mie. Bisogna diffidare sempre, porsi domande”.
Gli stessi interrogativi che affollano gli occhi di fronte ai mostri della Storia, come il nazista Heinrich Himmler e il cannibale giapponese Issei Sagawa, oppure dinnanzi ai frammenti urbani del poderoso Murky Water I, II, III, o, ancora, di fronte a una natura morta à la Cézanne, a un coniglietto in bicromia o ai tramonti implosivi che paiono invertire le direttrici di luce di Turner: che cosa stiamo guardando? Da quale angolo di memoria condivisa provengono queste immagini? Tuymans costringe a stare nel qui e ora della pittura, trasformando lo sguardo in un ostaggio docile, imprigionato nei limiti bidimensionali di un supporto.
IL MOSAICO
Lo stesso meccanismo si verifica su scala ambientale appena si calpesta il mosaico site specific Schwarzheide, creato nell’atrio di Palazzo Grassi. L’installazione ricalca l’omonimo dipinto del 1986, che trae il nome dal campo di lavori forzati in Germania dove alcuni detenuti riducevano in strisce i disegni realizzati in segreto per salvarli dalla confisca. Il soggetto dell’opera pittorica è la riproduzione del disegno originale di Alfred Kantor, sopravvissuto alla Shoah: la foresta tratteggiata dal detenuto diventa per Tuymans prima materia pittorica e poi musiva, lungo un asse che ne dissolve e ne riordina le forme. Anche stavolta si resta “impigliati” in memorie solide come il marmo che compone il mosaico, afferrandone però l’impatto solo da una certa distanza, come pittura vuole.
‒ Arianna Testino
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