Tra muro e monitor. L’editoriale di Claudio Musso
Il confine tra reale e virtuale è sempre più sfumato. Ma come viene percepito – e utilizzato – dagli artisti?
C’è stato un tempo in cui era facile distinguere il reale dal virtuale. Poi, all’improvviso, quella sensazione è svanita come per incanto. In quel tempo la realtà virtuale (squisito ossimoro) aveva accessi visibili come porte e portali, allora esistevano dispositivi progettati e costruiti per l’ingresso nell’altra dimensione. Ciò che forse appariva già chiaro, però, era le reciproca influenza che un “mondo” poteva avere sull’altro. Personaggi chiave come Jobe Smith (Il Tagliaerbe, 1992), Tom Sanders (Rivelazioni, 1994) e, più di tutti, Johnny Mnemonic dell’omonimo film (1995) sono la testimonianza diretta di come le due realtà venissero descritte (e percepite) come separate, seppur parallele. Indossare una tuta, infilarsi dei guanti, salire su un tappeto elastico e, per tutti, inforcare un visore erano passaggi fondamentali per entrare nell’altra dimensione.
Il periodo a cui si fa riferimento è la metà degli Anni Novanta, momento in cui anche Tomás Maldonado si appassiona al tema consegnando, tra le altre, queste parole: “È discutibile, per esempio, definire immateriale il software. A ben guardare il software è una tecnologia, ossia uno strumento cognitivo che, in modo diretto o indiretto, contribuisce a conti fatti a mutamenti di natura materiale. Si pensi soltanto ai programmi destinati a gestire i comportamenti dei robot nella produzione industriale”. A parte l’indiscutibile attualità del pensiero, ciò che più interessa in questa sede è l’analisi del rapporto uomo-macchina nel comparto artistico o, meglio, delle arti che vengono dalla strada. Ancora una volta, infatti, tra i primi a percepire le possibilità inedite offerte dalla “doppia realtà” sono i protagonisti della scena graffiti, o coloro che gravitano intorno a quell’ambiente.
In un progetto del 2002, Jürg Lehni, in collaborazione con l’ingegnere Uli Franke, immagina e progetta un dispositivo portatile, Hektor, in grado di produrre disegni con bombolette spray a partire dalle istruzioni impartite da un software. Tecnologicamente rudimentale, Hektor non solo è uno dei primi tentativi di riproducibilità tecnica dei graffiti, ma è in grado di compiere operazioni che mettano in crisi il concetto di autorialità, anche in questo ambito dove originalità dello stile e riconoscibilità sono parole d’ordine. Il confine tra muro e monitor diventa poroso, anzi a dire il vero lo era già da qualche anno. La robotica aveva fatto il suo ingresso in pompa magna nei meandri intraverbali dei graffiti filtrata dall’immaginario anime dei vari Gundam, Akira fino a Neon Genesis Evangelion. Insieme alle splendenti cromie metalliche delle corazze e alle possibilità di trasformazioni meccaniche, le lettere elaborate da artisti come DAIM o V3rbo integrano componenti desunte dall’estetica computazionale e digitale che nel frattempo investe ogni campo del visivo.
La possibilità di integrare nell’opera elementi dello spazio urbano che li accoglie e della cultura Pop in genere sta alla base della graffiti culture, non è un caso quindi che artisti provenienti da questo emisfero si trovino a loro agio nello sperimentare con video, (live) media e design.
‒ Claudio Musso
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #48
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