Letizia Battaglia, la donna dietro l’obiettivo
A Venezia, la Casa dei Tre Oci dedica a Letizia Battaglia una poderosa retrospettiva. Attraverso duecento scatti, molti dei quali inediti, si ripercorre la sua carriera dagli Anni Settanta a oggi.
Non ha bisogno di presentazioni Letizia Battaglia (Palermo, 1935). Di certo non Italia, spesso neppure all’estero: nel 2017 il New York Times l’ha citata come una delle undici donne straordinarie dell’anno. Eppure, parlando con Letizia Battaglia non si riesce a inquadrarla, come ha fatto invece lei per gli eventi della storia palermitana. Impossibile definirla “fotografa di mafia”, significherebbe offenderla. E a ragion veduta: Letizia Battaglia ha raccontato da insider tutta Palermo, per non parlare del contributo dato al teatro, all’editoria e alla promozione della fotografia come disciplina. Continua a sorprendersi della sua vita e a riservare sorprese; non ultimi, gli scatti inediti esposti alla Casa dei Tre Oci.
Letizia Battaglia “fotografa di mafia”: non pensa sia una definizione inappropriata?
Io la trovo ridicola, frutto della pigrizia dei giornalisti. “Fotografa della mafia” mi offende. Ho anche fotografato i mafiosi e i crimini di mafia, ma ho lavorato con grande respiro su Palermo. Gli altri posti del mondo in cui mi sono recata, a quanto pare, non mi stimolavano molto: non ho scattato buone fotografie; solo Palermo ha avuto tutto il mio amore.
Lei è passata alla storia per le immagini effettivamente legate alla criminalità organizzata. Ha detto che il suo è un “archivio di sangue”. Se guardiamo ai reportage di oggi, invece, vediamo tantissimi morti ma poco sangue…
Sono fotografi più eleganti di me, forse. Per me era traumatico l’incontro con una morte violenta. Il sangue c’era: cosa potevo fare, eliminarlo? Per la prima volta, nella mostra ai Tre Oci, esporrò lo scatto di un bambino in un lago di sangue. Questi pudori, questi puritanesimi sono orribili: il fotografo deve mostrare quello che vede e deve mostrarlo così com’è. Non si deve assolutamente fare censura.
Anche perché alcuni scatti acquistano senso, magari per la prima volta, a distanza di decenni. Pensiamo alla foto di Andreotti con Nino Salvo, oppure all’immagine del corpo di Piersanti Mattarella estratto a braccia dall’auto dal fratello Sergio. È un fenomeno che aveva previsto? Cosa le suscita?
È la vita che riapre gli archivi, non so come dire. E la fotografia diventa un’altra fotografia. Lo scatto di Mattarella era l’immagine del Presidente [della Regione Sicilia, N.d.R.] a cui avevano appena sparato. Oggi ha acquistato un altro valore, perché il fratello della vittima è diventato Presidente della Repubblica Italiana. Questo va al di là di me, delle mie aspettative. Trovo sorprendente il valore di una fotografia, il fatto che possa davvero procedere da sé. Così come è successo per la bambina con il pallone, l’ho ritrovata adulta dopo 38 anni: avevo davanti questa donna bellissima, buona, gentile, che ha vissuto la sua vita lontana da me anche se io ho sempre tenuto la “bambina col pallone” vicina, con questo sguardo grave in un essere così giovane. Ecco, ora quel ritratto ha un altro significato. È stupendo avere un archivio, tenerlo e mantenerlo.
Quante immagini ha in archivio?
Ah non lo so, sono proprio tante. Ora per la mostra ai Tre Oci ho rivisto – quasi ho visto per la prima volta, perché le avevo scartate – duecento fotografie quasi tutte inedite. Perché questo è l’invito che mi è stato rivolto: selezionare immagini “altre”, non quelle che sono state portate al Maxxi. È stata una fatica enorme e una continua sorpresa. Pensa che ho trovato le foto del Premio Stefania Rotolo, un concorso per giovinette che vogliono diventare showgirl: c’era anche Alessia Marcuzzi, avrà avuto 12 anni. Me la sono ritrovata davanti così, bella, carina, e questo ritratto sarà esposto a Venezia.
Le fotografie le raccontano storie che nel frattempo ha dimenticato.
Ho dimenticato tante cose perché ho lavorato tanto, tanto, tanto. Non è che ci fosse solo la mafia: ti mandavano a fotografare la spazzatura come il concorso di bellezza, per qualche anno ho seguito anche il football.
E ci sono sue fotografie di calcio, in mostra?
Guarda, sono una schifezza. Non ne sapevo niente di calcio, sbagliavo il momento: a me bastava che i giocatori saltassero in aria e mi sembrava di vederci una bella fotografia, invece i passaggi e le azioni che portavano al gol – sono quelli che alla fine interessano – a me non interessavano. Comunque sia, la fotografia non è stata soltanto cronaca, un mezzo per raccontare quello che avveniva: ho cercato, senza quasi saperlo, di raccontare ciò che sentivo io; quello che ero io in quel periodo, in quei decenni.
Fotografa ancora?
Altroché se fotografo ancora! Per ora scatto nudi di donne, non sexy ma belli. Perché il corpo è sempre bello, è verità, è straordinariamente sincero. I soggetti sono tutte mie amiche, una di loro ‒ che ha 73 anni ‒ ieri mi ha rimproverato perché non l’ho fotografata nuda! Ed è stupendo, perché loro sanno che farò di tutto per renderle meravigliose, così come certe volte sento che le donne sono. Almeno scommettono nella vita, non sono egoiste: si danno, magari si sbracano, però sono generose.
La sua fotografia è assolutamente istintiva oppure quando scatta pensa anche alla tecnica?
Non ho mai capito niente di tecnica. Infatti ho negativi molto disordinati, dove ci sono tre o quattro errori e poi una fotografia buona, poi ancora immagini sbagliate. Alla Magnum mi è capitato di vedere diapositive su diapositive, centocinquanta scatti della stessa posa. Io non credo nemmeno di essere una fotografa, sono una persona eclettica che ha fatto e fa fotografie, sempre con molta passione. Non mi chiudo in questo ruolo, anche se alla mia età sarebbe comodo dire: “Sono la fotografa Letizia Battaglia”. No, sono una persona, una donna, un essere che soffre, che è stanco, a cui fa male la schiena e che ancora fa fotografie. Poi faccio tutto con passione: lo sai che dirigo un centro di fotografia?
Ecco, ci stavamo giusto arrivando. Dopo decenni di attività, lei inaugura il Centro Internazionale di Fotografia. È questa, oggi, la battaglia di Letizia Battaglia?
Ho sempre amato lavorare con gli altri; più che altro, in questi ultimi decenni ho lavorato con “le altre”. Il fotografo è una persona sola: nel mondo o in una stanza, è sempre solo. Ma io ho sempre avuto un gruppo di fotografi con cui lavorare; ho fatto teatro con donne; dirigo una rivista che s’intitola Mezzocielo cui – ancora – collaborano delle donne; ho fondato una casa editrice, le Edizioni della Battaglia. Già nel 1979 avevo aperto una galleria con Franco Zecchin, il Laboratorio d’IF: era il primo spazio dedicato alla fotografia nel Sud.
Sette anni fa sono andata dal sindaco Orlando, gli ho parlato della mia intenzione di inaugurare un centro e lui si è trovato d’accordo. Ne parlai con i giornalisti, per cui la notizia uscì sui giornali. Dopodiché, andarono da Orlando e gli chiesero “Perché lei?”; “Picchì idda?”, così, in dialetto. Perché io? Perché amo molto la fotografia, ma non solo la mia. Mi rallegra il cuore, mi inquieta, mi attira la fotografia degli altri.
A proposito degli altri, ma delle altre soprattutto: qual è la battaglia delle donne oggi? Cosa vuole dire loro?
Di lavorare sodo, solo così si giunge alla conquista di qualcosa di vero e non effimero. Perché la vita è stupenda, io ho 84 anni e la considero ancora e sempre piena di sorprese. E in rapporto a questa meraviglia bisogna impegnarsi molto; con gioia, ma anche sfacciatamente. Ecco: con coraggio. Il coraggio ci vuole, lo dico anche a me stessa.
‒ Caterina Porcellini
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #15
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