Fotografia Europea in 10 mostre
Puntuali, a ogni primavera, le mostre di Fotografia Europea aprono i battenti. Una manifestazione che cresce e si espande pian piano nelle due direzioni lungo la via Emilia che attraversa la città, per arrivare così a toccare altri luoghi della regione. Da Parma a Modena, fino a Bologna e Ravenna.
Sul fatto che la fotografia sia il mezzo di comunicazione interpersonale oggi più diffuso – come evidenzia anche il direttore artistico di Fotografia Europea, Walter Guadagnini –, non ci sono dubbi, né ci sono dubbi sul fatto che il recente bombardamento di immagini digitali abbia messo in crisi il mondo della fotografia professionale, sia in termini di riflessione sugli scopi e sulle modalità di ciascun “clic”, sia di vero e proprio lavoro. Ma la fotografia – in tutte le sue declinazioni, da quella d’arte al reportage – è comunque viva e assai vegeta, e a Reggio Emilia sono più che convinti che abbia ancora senso dedicarle un imponente festival, giunto ormai alla sua veneranda XIV edizione.
Tante le mostre, tra le ufficiali e quelle del Circuito Off, che offrono al pubblico la possibilità di scoprire i grandi classici storici della fotografia (e qui non parliamo della raffinatissima e imperdibile monografica su Horst P. Horst, a cui dedicheremo a breve un approfondimento), i maestri italiani che conducono le più interessanti ricerche attraverso il medium fotografico, i nuovi talenti che propongono progetti inediti sia per tecnica sia per concezione, e tanto altro, come testimonia il consueto Speciale Diciottoventicinque, i cui giovanissimi protagonisti spesso si collocano più che dignitosamente a fianco dei giganti dell’arte ufficiale.
Non mancano gli eventi – incontri, concerti, laboratori, insomma tutto quello che di norma anima i festival – né le produzioni originali, come la commissione affidata un anno fa a Francesco Jodice, chiamato a realizzare un film della durata di circa venti minuti sul tema della precedente edizione di Fotografia Europea (Rivoluzioni): meglio sarebbe allineare le produzioni ai temi in corso, ma al momento non resta che attendere il 2020 per scoprire il lavoro appena proposto a Vittorio Mortarotti, che si concentrerà sulla documentazione delle tradizioni sociali e soprattutto linguistiche della piccola isola giapponese di Yonaguni.
Tra le tante esposizioni, vi raccontiamo allora quelle che più ci sembrano offrire una prospettiva storica o contemporanea sulla pratica fotografica.
JUSTINE EMARD, LA NOTTE DEI TEMPI ‒ CHIOSTRI DI SAN PIETRO
Possono un uomo e un robot innescare tra loro una relazione profondamente poetica? È una questione non recente – pensiamo solo al “preistorico” film Corto Circuito del 1986 – che Justine Emard affronta addentrandosi in una fabbrica di robotica di Osaka e documentando attraverso l’opera video Co(Al)xistence quel che succede quando una macchina di nuova tecnologia riesce a danzare con un ballerino in carne e ossa. Non solo poesia, ma anche una eccellente resa estetica favorita da un lato dallo sguardo preparato dell’artista e dall’altro dall’eleganza di Mirai Moriyama, protagonista umano del video che si confronta con il sistema di vita artificiale – lo hanno chiamato Robot Alter – messo a punto da Ikegami Lab.
La mostra – il cui titolo è preso a prestito dal romanzo di fantascienza di René Barjavel che narra come una spedizione francese abbia scoperto in Antartide una antichissima civiltà più avanzata di quella attuale – comprende altri quattro progetti (The Birth of the Robots, The Ice People, Reborn e Soul Shift), tutti tesi a esplorare l’incontro misterioso tra la tecnologia e la vita.
PIXY LIAO, EXPERIMENTAL RELATIONSHIP ‒ CHIOSTRI DI SAN PIETRO
Assolutamente pop e deliziosamente ironiche, le fotografie dell’artista cinese Pixy Liao ribaltano le relazioni tra uomo e donna, creando situazioni a ben vedere assurde, ma intensamente simboliche, che riducono il suo giovane fidanzato giapponese – evidentemente consenziente e divertito! – a uomo oggetto, a diventare essere fragile in balia della donna che ne fa quel che vuole, dal trasformarlo in un simulacro di un pezzo di sushi fino a cullarlo tra le braccia. “Da donna cresciuta in Cina, ho sempre pensato che avrei potuto amare solo qualcuno di più vecchio e maturo di me, qualcuno che potesse farmi da protettore e da mentore. Poi ho incontrato il mio attuale fidanzato, Moro. Lui ha cinque anni in meno di me, e questo ha sconvolto il mio concetto di relazione, lo ha capovolto. Sono io quella con più autorità e potere”, afferma l’artista. Il risultato è una serie straniante che, grazie alla leggerezza dei colori tenui e agli sguardi sottilmente provocatori della strana coppia, fa riflettere sui retaggi, ancora così vivi anche in Occidente, dei rapporti eterosessuali.
VINCENZO CASTELLA, URBAN SCREENS ‒ SINAGOGA
Altra mostra da non perdere assolutamente. Immagini di grandi dimensioni, semplicemente appoggiate per terra in un contesto che ancora promana spiritualità: questi gli ingredienti di Urban Screen, il progetto più recente di Vincenzo Castella che propone una “labirintica visione di una vegetazione al contempo addomesticata e inconoscibile, riflessione sul rapporto dell’uomo contemporaneo con l’elemento naturale”: l’effetto è potente e pare quasi di entrare davvero in quella natura artificialmente composta, di sentirne gli odori e di trovarsi avvolti nella verde umidità. Il maestro dei paesaggi, spesso metropolitani, non si smentisce e crea una suggestione che si alimenta di linfa vegetale e di luce fredda ammorbidita dalle sfocature volute che bilanciano la neutralità quasi scientifica dello sguardo del fotografo.
LARRY FINK, UNBRIDLED CURIOSITY ‒ PALAZZO DA MOSTO
Un classicone, soprattutto per coloro che si divertono a riconoscere i volti dei vip nelle immagini in bianco e nero del fotoreporter statunitense, assiduo frequentatore dei party della high society americana, soprattutto di quella legata al mondo artistico. Larry Fink nella sua lunga carriera ha tuttavia ritratto anche emarginati, realtà familiari, manifestazioni politiche e sportive, mettendone sempre in rilievo il fattore umano, come sostiene Walter Guadagnini. E tra lo sterminato archivio, Fink ha selezionato appositamente per il tema di Fotografia Europea 2019 quegli scatti che contengono dei gesti, delle mani che toccano i corpi degli altri, dei volti che si sfiorano, delle braccia che abbracciano: i legami e le relazioni si fissano così mediante un obiettivo puntato con “sfrenata curiosità”.
FOCUS GIAPPONE ‒ CHIOSTRI DI SAN PIETRO
Non solo fotografia strettamente europea: da qualche tempo il festival reggiano si apre agli altri continenti, e l’edizione del 2019 dedica un focus a un Paese che da secoli esercita un fascino irresistibile per l’Occidente, il Giappone. I tre ospiti d’onore sono Ryuichi Ishikawa, Kenta Cobayashi, Motoyuki Daifu, ma comprendiamo in questo approfondimento anche i progetti di Vittorio Mortarotti (The First Day of Good Weather, un’indagine sul Giappone scaturita da una tragedia personale e dalla conseguente ricerca di una misteriosa donna) e di Pierfrancesco Celada, con le sue foto sulle condizioni umane nelle megalopoli Tokyo, Nagoya e Osaka. Dei tre giapponesi, tutti connotati da una “irriducibile singolarità”, come la definisce Guadagnini, colpisce in particolare l’opera di Kenta Cobayashi, con le sue immagini instabili e mutevoli, fortemente legate alle nuove tecnologie e all’intelligenza artificiale: suggestivo anche il loro allestimento in uno dei vasti corridoi dei Chiostri di San Pietro.
GIOVANNI CHIARAMONTE, VERSO GERUSALEMME ‒ BATTISTERO E CHIOSTRI DI SAN NICOLÒ
Altro grande maestro, in equilibrio tra fotografia di reportage e ricerca artistica, Giovanni Chiaramonte espone nel Battistero il risultato di un “viaggio alla ricerca del proprio destino, attraverso le città e i luoghi in cui ha preso forma la storia dell’Occidente (Atene, Roma, Berlino), nelle rovine lasciate dai totalitarismi e dalle guerre del XX secolo”, mentre ai Chiostri di San Nicolò la protagonista delle opere è la città tre volte santa, dove le memorie personali si intersecano con quelle collettive.
SAMUEL GRATACAP, FIFTY-FIFTY ‒ CHIOSTRI DI SAN PIETRO
Guerra e migrazioni: giornalismo e fotoreportage non possono di questi tempi prescindere da quelle tragedie che spesso si intersecano, come avviene attualmente in Libia e in molte parti del mondo africano e mediorientale. Proprio in quel Paese, oltre che in Tunisia, Samuel Gratacap ha avuto modo di incontrare migranti, rifugiati e soldati, coloro che vivono tra la vita e la morte. In esposizione fotografie, video e racconti dei viaggi compiuti tra 2014 e 2016 in quei territori di cui molto si parla ma che si conoscono ben poco, nonostante influiscano così tanto sulla situazione socio-politica e sulla percezione di italiani ed europei.
JAAKKO KAHILANIEMI, 100 HECTARES OF UNDERSTANDING E LUCIE KHAHOUTIAN, THE TAPESTRY IN MY ROOM ‒ SOTTERRANEI DEL TEATRO VALLI
Tra le caratteristiche peculiari di Fotografia Europea vi è anche la possibilità per cittadini e visitatori di accedere a spazi normalmente chiusi al pubblico: questo è il caso dei sotterranei del più importante teatro di Reggio Emilia, che nel periodo di apertura delle mostre è accessibile e ospita due artisti: Jaakko Kahilaniemi e Lucie Khahoutian. Il primo, finlandese, interpreta le foreste del suo Paese (nonché quelle di sua proprietà), un tema non banale se si pensa che più del 71% del territorio della Finlandia è coperto da boschi; le sue opere sono “decostruite”, e il progetto 100 Hectares of Understanding “si compone di oggetti da lui ritrovati, di azioni che ha fotografato, di sculture che ha realizzato e di segreti visuali che ha plasmato”. Dall’altra parte, i collage fotografici della franco-armena Lucie Khahoutian mescolano i codici visivi dei due Paesi di origine dell’artista, creando immagini surreali, evidentemente kitsch e alle quali non è estraneo il poco noto umorismo armeno.
MICHELE NASTASI, ARABIAN TRANSFER ‒ PALAZZO DA MOSTO
Michele Nastasi ha una formazione da architetto, ed è proprio con lo sguardo da architetto che offre una serie di ritratti di nuove città (i “nuovi mondi” del tema di Fotografia Europea, appunto) della Penisola Araba: Abu Dhabi, Doha, Dubai, Kuwait City, Manama, Riyadh.
Gli scatti immortalano una quotidianità che riconosciamo per dei dettagli ma che ci sembra così estranea, frutto di un “laboratorio vivente in cui le aspirazioni identitarie locali si confrontano con i modelli occidentali”. Impeccabili, algide, spesso dominate da un biancore diffuso, le fotografie inquadrano quasi sempre gli avveniristici edifici di quelle terre lontane dalla condizione transitoria, e pure gli abitanti sembrano costruire delle architetture di corpi ordinate dal caso eppure così perfette.
JACOPO BENASSI, CRACK ‒ CHIOSTRI DI SAN PIETRO
Corpi di carne e corpi di marmo o di gesso: esposte in forma di dittici, le fotografie di Jacopo Benassi esplorano fisicità imperfette, pose spesso casuali ma che – oltre a dare una forte, quasi disturbante, impressione di intimità tramite un “linguaggio sporco, bruciante, persino urticante talvolta” – riescono sempre a instaurare un dialogo tra materia inanimata e organismo vivente. La “trascuratezza” è voluta, anche nelle scelte allestitive che sembrano dettate da incuria e che invece sono state appositamente messe a punto da Benassi, il quale e di tanto in tanto, ascia alla mano, infligge dei colpi alle cornici delle fotografie, forse per avvicinarle alle statue in frantumi o spezzate che con il loro bianco e nero paiono d’altro canto senza tempo. La produzione è realizzata in collaborazione con Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto e si lega a doppio filo a una coreografia messa a punto da Diego Tortelli.
‒ Marta Santacatterina
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