Street Art e coscienza critica. Intervista a Guerrilla Spam
Parola al collettivo che, dal 2010, interviene sui muri delle città guardando il presente con occhio critico e volontà di agire.
Guerrilla Spam nasce come spontanea azione non autorizzata di attacchinaggio negli spazi urbani, senza un nome e un intento definito.
Dal 2011 si susseguono numerosi lavori in strada in tutta Italia e all’estero, che mantengono un forte interesse per le tematiche sociali e per il rapporto tra individuo e spazio pubblico. Il collettivo predilige l’azione urbana illegale all’evento più ufficiale e autorizzato.
Agisce quotidianamente nelle scuole e Accademie di Belle Arti; il lavoro didattico è specializzato nell’ambito delle migrazioni, attraverso laboratori con italiani e stranieri, soprattutto africani, volti a conoscere le altre culture.
Siete un collettivo attivo dal 2010, nato a Firenze, e avete dato vita a numerosi lavori in strada in Italia e all’estero, usando le vostre parole, “con un forte interesse per le tematiche sociali e per il rapporto tra individuo e spazio pubblico“. Perché è nato tutto questo? Quali elementi pensate siano presenti ‒ e fondamentali ‒ ancora oggi nella vostra identità, rispetto agli inizi? Cosa invece è cambiato?
Quando abbiamo iniziato a Firenze ad attaccare i primi poster nelle strade non sapevamo bene quello che stavamo facendo. C’era l’evidente intenzione di esprimerci, di “dire qualcosa”, ma non avevamo pianificato nulla di più. Persino il nome “Guerrilla Spam” non esisteva, è nato dopo. Con il tempo ci siamo strutturati, abbiamo preso coscienza di quello che potenzialmente potevamo fare. Oggi abbiamo compiti e funzioni differenziate e ci alterniamo nei progetti: oltre agli attacchinaggi non autorizzati (che continuiamo a fare), ci muoviamo tra il muralismo e la didattica, nelle scuole, nelle comunità, nei centri di accoglienza, nelle carceri e nelle occupazioni. Facciamo tutto questo senza contraddizioni, scegliendo ogni volta il giusto peso e misura. Usiamo linguaggi differenti e “volti” differenti adattandoci alle situazioni. La guerriglia è rimasta, trasformandosi: ci piace considerarci sempre in continuo mutamento e adattamento, non possiamo sapere come saremo tra cinque anni e non vogliamo saperlo. Certamente muteremo ancora.
Che tipo di reazioni ha suscitato e suscita nelle persone la Street Art che realizzate?
Le più disparate; c’è chi apprezza, osserva e fotografa, chi rimane spiazzato o infastidito e chi strappa. Siamo della scuola di pensiero che accetta ogni tipo di reazione del pubblico, stabilendo che, una volta lasciato un lavoro in strada, il suo futuro non dipende più dalla volontà del suo creatore. Quindi, se una persona sfregia un nostro disegno o lo stacca accuratamente per metterselo in salotto, non possiamo che accettare tutto questo, anche se non condividiamo tale scelta. I lavori che lasciamo nelle strade non sono più nostri, ci affidiamo alla cultura e alla sensibilità del cittadino, che potrà farne quello che meglio crede.
Il collettivo è nato a Firenze. Che tipo di rapporto avete con la vostra città?
Nessuno di noi è in realtà di Firenze, veniamo tutti da varie cittadelle toscane, ma è lì che ci siamo conosciuti come amici e come collettivo, il primo anno di Accademia di Belle Arti. Firenze è una città particolare, ricca di storia e cultura stratificata, e per questo anche immobile, annoiata, vecchia e paurosa. Tutti i luoghi densi di “cose” fanno sempre fatica a produrne di nuove perché spesso si accontentano di quelle che già hanno e si limitano a custodirle. Si mettono vetri protettivi, ringhiere, paletti, telecamere, si lucidano le argenterie e si aspetta il pubblico che deve “consumare” tutto ciò. Firenze è appunto una città consumata, piena di custodi. È una città crudele che obbligatoriamente condiziona: noi abbiamo capito, a posteriori, che, forse, proprio la scelta del poster rimovibile sia nata dal contesto fiorentino in cui ogni pietra è antica e nulla può essere toccato; magari, se avessimo iniziato in una periferia milanese, adesso useremmo gli spray e faremmo tutte altre cose.
Il contesto, dunque, è importante.
Il contesto ti plasma. E ci sono anche lati positivi: a Firenze ogni muro, ogni mattone ha almeno cento anni, ma può averne benissimo anche cinquecento; passare le serate a parlare o bere una birra sui gradini poggiati lì dal Brunelleschi o camminare di fianco a case e chiese progettate da Michelangelo o sotto le finestre in cui il Beato Angelico dipingeva ti produce una certa familiarità con la storia. Ora, anche se queste cose non le sai, vieni influenzato e condizionato da tale ambiente, e sicuramente cresci in modo differente da un tuo coetaneo che cresce a Miami o New York. Il tuo senso estetico e il tuo modo di pensare la città (e il mondo?) è totalmente differente. Considerati i pro e i contro, abbiamo sempre utilizzato la forza, in modo metaforico, verso una città che usa la forza con te. Per questo i disegni alle volte violenti e poco digeribili, per questo una massiccia presenza non autorizzata nelle strade soprattutto del centro storico. È stata una sorta di sopravvivenza, uno stupro in risposta a un altro stupro, quotidiano, che Firenze e i suoi guardiani attuano verso di te.
In che modo sviluppate le idee, i messaggi da affiggere?
Quando si tratta di poster, solitamente questi nascono dalla necessità di dire qualcosa su temi che riteniamo urgenti. I manifesti della serie Istruisciti sono nati così, nel giro di due ore, senza averli troppo pensati o programmati, quasi per disperazione, di fronte a una situazione, quella italiana, che consideriamo triste. Allo stesso tempo, se invece dobbiamo intervenire in spazi pubblici per lavori di muralismo (quindi teoricamente permanenti) commissionati da istituzioni e amministrazioni, allora svolgiamo un lavoro differente di studio del muro, del territorio, della popolazione e delle sue tradizioni culturali per dipingere un qualcosa che si inserisca nel contesto in modo, possiamo dire, armonico. Il poster, all’opposto, ci permette di essere più irruenti, non tenendo conto del contesto, accettando tuttavia qualsiasi reazione del pubblico che può reagire in modo “forte” allo stesso modo in cui noi, con forza, gli abbiamo imposto di guardarlo. Possiamo paragonare il nostro muralismo a un discorso pacato e ordinato, fatto di storie, aneddoti e domande, e il nostro poster a un grido o uno schiamazzo condito anche da imprecazioni, ovviamente con la calata toscana.
Cosa ne pensate della diffusione dei lavori in strada attraverso i social?
È un fattore naturale che non ci sconvolge affatto. Cerchiamo di usare i social per veicolare i nostri lavori, e magari approfondirli, senza vederci nessuna contraddizione con la fruizione di chi li osserva in strada. Come la zappa di Caino, che può essere usata per arare un campo o per uccidere un uomo, allo stesso modo i social, e internet in generale, possono essere utili quanto distruttivi.
Ci parlate della vostra attività didattica nelle scuole e nelle Accademie?
Andare nelle scuole e parlare con i ragazzi è certamente la cosa più soddisfacente nel nostro lavoro. Molto più che dipingere un muro o attaccare un poster. È un modo per avere un confronto reale con altre persone, per capire la lontananza che può esserci tra noi, cercando magari di colmarla. Se si vuole parlare del mondo (e della società), è lì che si deve stare, e non nei salotti intellettuali a fare le chiacchiere. O, perlomeno, si possono fare entrambe le cose, avendo però la lucidità e la semplicità per stare a proprio agio in entrambi i contesti. Un po’ come facevano Pasolini o Scola, passando le giornate tra le baracche e i salotti romani.
Nelle scuole cerchiamo di portare la nostra esperienza e di far conoscere altri mondi; come diciamo spesso, anche gente tremenda come Salvini ha fatto la scuola media, quindi andare nelle scuole significa trovare chiunque, chi la pensa come te e chi no, ed è qui che si può fare la differenza. Le presentazioni, gli incontri o le conferenze con i tuoi fan servono a molto meno, perché sai già che tutti ti faranno i complimenti e gli applausi.
Lavorate anche con diverse comunità di migranti.
Lavoriamo da tempo con varie tipologie di comunità per richiedenti asilo, migranti e profughi di vario genere e carcerati. Siamo stati due anni alla Casa Circondariale di Larino, attraverso un progetto del Premio Antonio Giordano che ci ha permesso di conoscere un gruppo di una ventina di detenuti. Facciamo fatica a chiamarli detenuti, o “ospiti” (come in maniera politically correct si dovrebbero chiamare), per noi sono semplicemente ragazzi della nostra età, con storie, sogni e speranze come chiunque altro, con i quali siamo riusciti a stabilire un contatto e una sorta di amicizia sincera. Abbiamo raccolto dei poster disegnati da loro, con messaggi e pensieri, e li abbiamo attaccati fuori, sui muri di Torino; è stato un escamotage di evasione, prezioso quanto parziale.
Se non foste nati in Italia, in quale altro Paese vi trovereste a vostro agio per vivere e continuare i vostri lavori?
Sicuramente non negli Stati Uniti, forse l’ultimo posto al mondo nel quale vorremmo vivere. Ci sentiamo molto europei, prima ancora “mediterranei” e per nulla italiani. Quindi forse vorremmo vivere in un Paese affacciato sul Mediterraneo, questa pozza fertile che tanti incontri e scambi ha permesso nella storia, dei quali oggi abbiamo scarsa e frammentata memoria. Oppure, scendendo a Sud, l’Africa sub sahariana, quell’Africa “nera” che tanto abbiamo studiato nei libri e ascoltato nei racconti, sarebbe un posto in cui ci sentiremmo a nostro agio. Per adesso siamo arrivati sulla soglia del Mediterraneo, a Lampedusa, a osservare l’orizzonte. Forse un giorno, come dei viaggiatori medievali, ci spingeremo a Sud, verso quelle terre oltre il mare in cerca di cose che probabilmente troveremo diverse da come le abbiamo immaginate.
Di cosa vi state occupando oggi? Potete anticiparci qualcosa sul prossimo futuro?
Abbiamo un progetto, diciamo, segreto, che dal novembre 2017 stiamo portando avanti a Torino con una comunità composta da africani, mediorientali ed europei, con la quale abbiamo realizzato una serie di bandiere in tessuto molto particolari, nate dalle idee di grandi e bambini, con lo scopo di raccontare le loro storie. Non avevamo mai preso un ago in mano, ma abbiamo accettato la sfida; grazie a un ragazzo di diciannove anni del Gambia, di nome Masrè, abbiamo imparato qualcosa, arrivando alla fine di questo folle progetto. Da maggio in poi presenteremo l’installazione in varie città, iniziando con Torino. Il nostro obbiettivo: raccontare storie che non avresti modo di ascoltare, sbattertele in faccia e farti reagire. Anche questa è una forma di “guerriglia”.
‒ Alessia Tommasini
http://guerrillaspam.blogspot.com/
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