Gli artisti e la ceramica. Intervista a Vincenzo Cabiati
Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata agli artisti che hanno scelto la ceramica come mezzo per esprimere la loro creatività. Stavolta la parola va a Vincenzo Cabiati.
Vincenzo Cabiati nasce in Liguria nel 1954 e si forma nello studio del padre Achille, artista che dagli Anni Quaranta ha aderito al Realismo. Alla fine degli Anni Ottanta si trasferisce a Milano dove, presso la galleria Giò Marconi, allestisce la sua mostra personale Femminea e frequenta il gruppo autogestito di artisti di Via Lazzaro Palazzi. Cabiati preleva, senza alcun citazionismo, frammenti provenienti da un repertorio eterogeneo che passa dall’arte (Chardin, Courbet, Lorrain, Man Ray), al cinema (Kubrick, Greenaway, Truffaut) all’architettura (Ledoux).
La libertà iconografica si accompagna a una grande varietà di linguaggi: pittura, acquerello, disegno, scultura, fotografia, installazione, video.
Da dove partiamo? Da una definizione o, piuttosto, da una dichiarazione di intenti?
È difficile definirmi, forse è proprio questa non definizione l’aspetto più interessante. Una lettura giovanile, Una sola moltitudine del poeta e scrittore portoghese Fernando Pessoa, con i suoi eteronomi, ha contribuito nel tempo a consolidare un’attitudine.
È stato difficoltoso lavorare su questa diversità e moltitudine, come se, non potendo inserirmi in un contesto, si perdesse qualcosa.
La cosa che più affascina del tuo lavoro è proprio una certa ipercontemporaneità, nel senso che a oggi moltissimi lavorano con un’ibridazione di linguaggi, l’uso di internet, con scarti di immagini dalla rete. Ciò che mi interessa capire è banalmente come tu creassi il tuo archivio prima di Google, da dove partiva il tuo bacino di riferimento?
Dal cinema, dalla tv, come per molti della mia generazione. Io, in particolare, mi abbandonavo a una dolce indolenza guardando soprattutto film con una polaroid accanto per attenuare i sensi di colpa. Inoltre fin da piccolo ho sempre avuto una dipendenza da immagine. Per intenderci: copiavo tutti i fumetti che mi regalavano, da Blek Macigno a Topolino, non disegnavo fumetti. Quando ho iniziato a vedere cinema si è attivato un meccanismo molto simile e quasi naturale. Uno dei primi lavori, Giubbe rosse che si baciano, è frutto dell’incontro tra Barry Lyndon, Blek Macigno e l’argilla, usata per dare volume ai cinque fotogrammi scelti per la sequenza di cinque piccole sculture.
Non c’è una volontà ironica nel tuo lavoro.
Non c’è volontà e non c’è citazione. Io semplicemente rifaccio. È nello scarto del rifare, nel passaggio che avviene tutto. È un evento. Vedo un’immagine, un dettaglio, un frame che mi piace, lo rifaccio. L’unica “scelta “è il materiale più adatto a questa rielaborazione. Solitamente ho una sorta di visione che si accompagna alla volontà di rifare. La ceramica, con quella luce che emana, come un monitor, uno schermo è meravigliosa per assecondare le immagini che arrivano dal cinema. Parlando con Tatti Sanguineti (attore, regista, critico cinematografico) durante l’allestimento di una mostra ‒ un dialogo tra mie opere in ceramica prese dal cinema (es. Isabella Rossellini mi canta la ninna nanna) e foto e video di Abbas Kiarostami ‒, mi diceva che era “… colpito dal mio essere massimamente anti-digitale, il passare dall’imponderabile (quanto possono pesare trentacinque millimetri di pellicola 35?) all’industria pesante della ceramica”. Uno sguardo inaspettato e molto attraente.
È molto interessante il binomio disegno/ ceramica che metti spesso in atto. Questo perché in te il disegno è la riduzione della forma ai suoi confini essenziali, nel tentativo di restituire una plasticità in due dimensioni. E questo esercizio è come potenziato quando lo abbini alla ceramica (anche perché di fatto la ceramica la lavori in maniera plastica e diretta).
Nella mia prima mostra da Giò Marconi ho fatto dei cilindri di argilla che venivano fuori dal muro come se fossero una sua estensione e ho disegnato a matita sull’argilla bianca. I disegni erano geometrici, righe, un’immagine astratta. In quella occasione ho messo in atto una sorta di ibridazione, sovrapposizione. In altre occasioni, come nell’ultima versione della Principessa liquida, riconduco, lavorando con luce, pigmenti e cipria, la plasticità della scultura in ceramica a essere un grande disegno.
Rispetto alla generazione degli Anni Novanta il tuo lavoro è quasi tangenziale.
Nel libro che fece Politi nei primi Anni Novanta per l’arte italiana ricordo che mi inserirono nella sezione ‘cani sciolti’ o ‘lupi solitari’, non ricordo bene. Una definizione che paradossalmente non è così lontana dalla mia natura e dal mio lavoro. Io ho un bellissimo rapporto sia con il lavoro sia con gli artisti di quella generazione, che ho incontrato al mio arrivo a Milano. Con alcuni di loro c’è ancora una bella collaborazione. Credo che, a parte i primi momenti, la tangenzialità sia una condizione che ci accomuna. Il mio è un lavoro che ha tempi molto dilatati e favorisce una diacronia nei confronti del contemporaneo. Una autonomia non semplice da gestire e raccontare.
Dato che sei in vena di bilanci ti chiederei quali sono – se ci sono ‒ le caratteristiche specifiche della tua ricerca con la terra.
Essendo figlio di uno scultore, la terra è un materiale che ho sempre visto. Mio padre aveva un forno per la ceramica nel suo studio. Una condizione che può generare anche un rifiuto. Non è un percorso lucido. Non c’è ricerca o specificità. È presente e disponibile. Come ricordavo, nella prima mostra personale da Giò Marconi con la terra ho disegnato, mi ha permesso di modificare lo spazio della galleria, è diventata architettura. In seguito, quando ho iniziato a dare un corpo ai frame dei film per una mostra da Emilio Mazzoli, grazie all’incontro con Davide Servadei e la sua Bottega Gatti, sono arrivate le grandi dimensioni, è arrivato lo splendore dei colori e della luce. Smalti, lustri oro e platino, colori brillanti e trasparenti a terzo fuoco. Una vera rivelazione. Diverse rispetto alle prime terrecotte, dove l’unico colore era quello delle differenti terre usate.
‒ Irene Biolchini
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