Il Surrealismo di Lee Miller. A Bologna
Ci addentriamo nel percorso espositivo della mostra “Surrealist Lee Miller”, allestito presso il bolognese Palazzo Pallavicini, in compagnia di Claudia Stritof della ONO Arte Contemporanea, che ha curato il progetto. Alla riscoperta dell’opera e della vita di una delle più grandi donne fotografe del Novecento.
Fotografa di guerra, e non solo, Lee Miller (Poughkeepsie, 1907 – Chiddingly, 1977) ha attinto dalle istanze surrealiste per sviluppare la propria poetica, ora in mostra al Palazzo Pallavicini di Bologna.
Questa mostra ha il merito di riportare all’attenzione del pubblico una delle artiste-fotografe del secolo scorso più originali per la storia della fotografia, il cui lavoro tuttavia è ancora ben poco riconosciuto e valorizzato – quantomeno in Italia –, condividendo questa sorte con molte sue straordinarie colleghe. Penso per esempio a Anne Brigman, Imogen Cunningham, Florence Henri, Claude Cahun, Wanda Wulz…
In questi anni si nota un rinnovato interesse per il periodo, e anche per le fotografe, e ben vengano le mostre, perché permettono di vedere opere spesso nascoste negli archivi fotografici (che in questo modo vengono valorizzati), dando la possibilità di approfondire storie poco narrate, proprio come quella di Lee Miller.
Quale è stata la linea curatoriale che ha definito la natura del percorso espositivo, comprensivo di ben 101 scatti, per raccontare la produzione di un personaggio così complesso come Lee Miller?
Il percorso curato da ONO Arte Contemporanea inizia da una data importante, il 1929, anno in cui la Miller, modella di Vogue, si trasferisce a Parigi con l’intenzione di diventare fotografa sotto l’egida dell’artista surrealista Man Ray, con cui instaura un sodalizio artistico che li porterà a realizzare numerosi progetti insieme e fare importanti scoperte come la solarizzazione. Dal periodo parigino, di cui è esposta un’ampia selezione di fotografie celebri e altre meno conosciute, passiamo poi alla parentesi newyorchese, quando Lee apre un importante studio fotografico dedicandosi alla ritrattistica e alla fotografia di moda. Segue il periodo egiziano, un momento felice, ma breve, che termina quando Lee, in uno dei suoi molti viaggi, conosce Roland Penrose, artista e fondatore dell’Institute of Contemporary Arts di Londra, che diventerà suo futuro marito.
Siamo alle soglie della Seconda Guerra Mondiale, evento che naturalmente sconvolge anche il destino della Miller.
Sì, perché invece di far ritorno in patria, come le era stato consigliato dall’ambasciata americana, decide di seguire Roland Penrose a Londra. Qui inizia a lavorare per l’edizione britannica di Vogue, realizzando fotografie commerciali, che lei giudica sorde rispetto ai drammatici bombardamenti che stavano sventrando la città. Vuole raccontare la guerra in prima persona e per questa ragione si arruola come corrispondente di guerra al seguito delle truppe americane.
Poche donne fotografe professioniste, in quegli anni, azzardarono foto di reportage e addirittura di guerra. Come si evolve il suo approccio al mestiere e all’immagine fotografica in questo particolare frangente?
Sì, le fotografe sono poche ma veramente coraggiose e anche per questa ragione il lavoro di Lee Miller ha una grande importanza. Da questo momento il tono delle sue foto, e di conseguenza della mostra, cambia, facendosi più drammatico, perché Lee a tutti gli effetti diventa fotogiornalista, scatta e inizia a scrivere i testi di suoi pugno, documentando la vita al fronte, gli attacchi con le bombe al napalm su Saint-Malo, la liberazione di Parigi, l’Alsazia e, non in ultimo, la liberazione dei campi di concentramento di Buchenwald e Dachau, di cui ci lascia immagini e testi di grande forza espressiva. Con le fotografie degli ultimi esasperati viaggi in Europa si chiude il periodo della guerra, ma non la mostra, che invece coglie una Lee più intima, dedita alla vita in campagna a Farley Farm, casa acquistata con Penrose per ospitare la vasta collezione d’arte che diventa meta per artisti e intellettuali, da Picasso a Miró fino a Man Ray.
Un fil rouge nella mostra è ravvisabile in quello sguardo e lessico surrealista che non abbandonerà la Miller neppure nelle immagini più distanti – anche cronologicamente – dalle tipiche atmosfere del movimento di Breton: gli scatti realizzati durante i viaggi in Egitto o la guerra, appunto, e finanche quelli nella vasca da bagno di Adolf Hitler.
Lo sguardo surrealista di Lee Miller si forma alla fine degli Anni Venti, durante il suo soggiorno parigino, ma fattivamente travalica questo breve frangente temporale per diventare tratto peculiare della sua poetica. Le immagini del primo periodo, se vogliamo, sono quelle più “accademicamente” surrealiste, caratterizzate da varie sperimentazioni, solarizzazioni, corpi acefali (molto vicini a quelli presentati dai surrealisti sulla rivista Minotaure), oppure scorci di una Parigi secondaria, che ricordano gli scatti di Eugène Atget, padre putativo della cerchia surrealista. Se si guardano le foto dei periodi successivi – e su tutti quello egiziano – cambiano i soggetti, ma non il suo occhio, che ormai ha trovato una coerente cifra stilistica e concettuale, che le permette di ritrarre la bellezza inconsueta della quotidianità. Inoltre la ricercatezza del suo lessico fotografico si riflette anche nell’uso di sofisticati giochi linguistici presenti nelle didascalie da lei scritte.
Puoi indicarci qualche esempio tra le opere in mostra?
Nello scatto Eggceptional Achivement, le eccezionali dimensioni dell’uovo fanno riferimento a un pallone aerostatico usato dalla contraerea e deposto sul terreno a cui due oche fanno da guardia perché non si fori con il filo spinato in primo piano. Inoltre, prima citavi la famosa foto scattata nella vasca di Hitler, un caso fortuito: infatti, dopo esser stata a Dachau, arriva a Monaco dove alloggia presso il comando della 45° divisione, un edificio anonimo, se non fosse che all’interno una grande svastica, l’argenteria con il monogramma A.H. e una centralina all’avanguardia fanno dedurre che quello era l’appartamento di Hitler. Era da giorni che Lee sognava di fare un bagno per lavare via lo sporco di settimane passate in guerra ed è così che nasce la fotografia: lei nuda nella vasca, con gli scarponi sporchi della polvere del campo di concentramento sul tappetino bianco del Führer, che la guarda da un ritratto alle sue spalle.
Un aneddoto che ritieni emblematico per far comprendere ai nostri lettori e ai visitatori della mostra la personalità di Lee Miller come donna e come fotografa?
Lee è stata una figura dalle molteplici sfumature e molti sono gli aneddoti interessanti sulla sua vita: da bambina amava sperimentare nella camera oscura del padre o nel suo laboratorio chimico; era irrequieta, tanto da farsi espellere da tutte le scuole del suo Paese, così come da adulta diventa il modello di new woman, emancipata e indipendente, ma era anche un’anima tormentata, che trova nel viaggio una via di fuga dai suoi demoni interiori che spesso la gettavano in un baratro da cui era difficile riemergere, ma lei ci riusciva, proprio grazie alle sue passioni. Più che un aneddoto specifico, credo siano le parole della nipote Ami Bouhassane (co-direttrice del Lee Miller Archive) a caratterizzarla al meglio.
Ovvero?
Ami spesso racconta che Lee aveva tre armi segrete: “la macchina fotografica”, che ha utilizzato con assoluta duttilità lavorando per la moda, per la pubblicità, ma anche raccontando gli eventi più tragici della storia del XX secolo; poi “la macchina da scrivere”, uno strumento diventato per lei catartico, e infine, “il coltello da cucina”, perché, alla fine della sua vita, supera un periodo molto drammatico, diventando a tutti gli effetti una cuoca estrosa di fama internazionale. In poche parole Lee è stata un vulcano di creatività, mai banale, sempre ironica ma anche una figura profondamente melanconica.
‒ Valentina Tebala
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati