Storia di un progetto urbano. La Z.A.C. di Clichy-Batignolles a Parigi
In occasione delle Olimpiadi 2024, la capitale francese è pronta a sfoggiare un eco-quartiere nuovo di zecca. Una riflessione sull’intero progetto e un focus sul palazzo per uffici di Baumschlager & Eberle e SCAPE.
A quasi due decenni dalle prime riflessioni sulla sua trasformazione (2001), il quartiere – eco-quartiere per gli amanti dei neologismi green – di Clichy-Batignolles è pressoché concluso. L’idea di riconvertire 50 ettari di scalo ferroviario recintato in una parte di città nacque all’epoca dell’amatissimo sindaco socialista Bertrand Delanoë. Erano gli anni, i primi Duemila, in cui Parigi riscopriva e potenziava le sue linee tramviarie, le carreggiate automobilistiche dei grandi viali haussmanniani si ritraevano per far posto a una rete di piste ciclabili ancora oggi in crescita, e Paris Plage allestiva sulla Senna simil-spiagge estive, subito affollatissime. La capitale francese era anche in gara per ospitare i Giochi Olimpici del 2012 e le Batignolles avrebbero potuto accoglierne il relativo villaggio. Vinse Londra, il progetto cambiò funzione ma non si fermò, e ora il quartiere si presenterà pressoché nuovo di zecca all’edizione 2024 delle Olimpiadi. Entro quella data sarà completata anche la fermata della metropolitana di Pont-Cardinet, prolungamento dell’attuale linea 14, asse portante del sistema dei trasporti del Grand Paris Express.
Z.A.C.: LUCI E OMBRE
E proprio mentre la Biennale di Architettura e di Paesaggio di Versailles, inaugurata lo scorso 4 maggio e presentata come il primo evento di questo tipo organizzato in Île-de-France, riafferma l’importanza della riflessione sulla scala regionale della “grande Parigi”, l’apertura al pubblico e il lancio mediatico degli ultimi edifici delle Batignolles sono l’occasione per fare un punto sui criteri che hanno guidato il progetto urbano nella città consolidata in Francia negli ultimi decenni. Quella di Clichy-Batignolles è una Z.A.C. (“Zone d’aménagement concerté”, letteralmente “Zona di progettazione concertata”), acronimo che indica uno strumento di gestione del progetto urbano le cui origini risalgono alla fine degli Anni Sessanta. L’epoca d’oro delle Z.A.C., dalla metà degli Anni Settanta alla fine del millennio, corrisponde alla progettazione della Francia urbana dopo il trauma della rénovation modernista, dopo la tabula rasa dell’esistente, dopo le barre e le torri, dopo l’estetica statistica e generica della prefabbricazione. Così, i progetti di molte Z.A.C. si proponevano di “ricucire”, di ritrovare una continuità possibile di spazi, forme e linguaggi tra la città contemporanea e quella del passato. Le esperienze considerate di successo da questo punto di vista si contano sulle dita di qualche mano: troppo spesso le Z.A.C., delimitate come perimetri burocratici d’intervento, restano isole chiaramente riconoscibili e difficilmente appropriabili all’interno del tessuto urbano.
CONSIDERAZIONI SU UN PARCO, UNA TORRE E DUE TESSUTI URBANI
Nata in un capitolo già maturo di questa storia, Clichy-Batignolles riesce solo in parte a mitigare il famigerato “effetto Z.A.C.”. Certo, il parco Martin Luther King, di cui la prima porzione è stata inaugurata già nel 2007, si è affermato rapidamente come un potente centro della vita pubblica per due quartieri, il XVII e il XVIII arrondissement, che in precedenza si voltavano le spalle in questo luogo, in corrispondenza della ferrovia. Il merito va in parte al progetto riuscito di François Grether, Jacqueline Osty e OGI studio di ingegneria, in parte alla semplice condizione di esistere come vuoto verde nel pieno di una città densissima. E indubbiamente il monumentale Palazzo di Giustizia di Renzo Piano (2015-18) è un raro landmark contemporaneo di qualità nel paesaggio parigino, particolarmente apprezzabile dagli automobilisti in corsa sul périphérique – le voci di corridoio, però, lo vogliono poco amato dai suoi utilizzatori, affezionati alle atmosfere vieux Paris e soprattutto alla più pratica distribuzione orizzontale del vecchio palais sull’Île de la Cité. Al di là di queste due presenze d’eccezione, è il tessuto ordinario di abitazioni e uffici a sollevare qualche perplessità.
VERSO UN’IMMAGINE URBANA CONDIVISA
Se il settore a nord-est del parco, il primo a essere realizzato, è realmente un marché aux puces poco coerente, autoreferenziale di volumetrie e decorazioni stravaganti, la zona sud-ovest, attorno alla rue Mstilslav Rostropovitch, è per molti versi più riuscita, grazie anche a una modifica sostanziale della procedura di gestione del progetto. Confermato l’obbligo per ogni promotore di assegnare il proprio lotto tramite concorso, si è aggiunto qui il vincolo di selezionare équipe bifronti, formate da uno studio affermato in collaborazione con un emergente. Soprattutto, tutti gli architetti hanno dovuto partecipare collettivamente a una serie di workshop, organizzati con cadenza settimanale per diversi mesi e gestiti dalla Paris Batignolles Aménagement, la società pubblica che coordina tutta l’area. È grazie a questi atelier che si è compiuto un processo di parziale riduzione della varietà delle proposte in gioco e di definizione di una selezione di tonalità, materiali, linguaggi: non una completa uniformazione, peraltro non necessariamente auspicabile, ma una convergenza di fondo verso un’immagine urbana condivisa, non senza qualche risultato positivo.
GLI UFFICI VERDI DI BAUMSCHLABER & EBERLE E SCAPE
L’edificio d’angolo sul Boulevard Pereire, a sud della ferrovia, completato nel 2014 da LAN architecture, resta quello sostanziato dalla riflessione più articolata e coerente sul rapporto con la Parigi haussmanniana, ma anche altri progetti dimostrano la volontà di proseguire e reinterpretare in chiave contemporanea il paesaggio della città ordonnancée di origine ottocentesca. È il caso, ad esempio, del palazzo per uffici di Baumschlager & Eberle e SCAPE, lo studio fondato nel 2004 a Roma da Ludovica Di Falco, Francesco Marinelli, Paolo Mezzalama e Alessandro Cambi. Oggi SCAPE è guidato da Ludovica Di Falco; nel 2016 gli altri tre architetti ‒ coprogettisti del complesso parigino – hanno fondato la società di architettura It’s. Il rapporto tra la regola, il modulo ripetuto, e la sua puntuale variazione è all’origine tanto dei prospetti rivolti verso la città, più profondi e chiaroscurati, quanto di quelli affacciati sulla ferrovia, trattati come superfici bidimensionali e astratte, e dove il colore bronzato dei rivestimenti in alluminio reagisce con le tonalità metalliche dello scalo ferroviario.
UN FOCUS SU MATERIALI E TECNOLOGIE
Green Office® Enjoy è la denominazione registrata del progetto, che riesce a interpretare più di altri le ambizioni “eco” del quartiere. Nelle parole degli architetti, si tratta del “primo complesso per uffici a Parigi capace di produrre più energia di quella che consuma”, una performance certamente ottima a cui contribuiscono non solo i 1.700 metri quadri di pannelli solari posizionati in copertura, ma anche la struttura interamente in legno, che già in fase di costruzione ha permesso un risparmio di circa 2.900 tonnellate di CO2. Legno selezionato con intelligenza anche per la sua leggerezza, un requisito fondamentale per una volumetria che sorge a sbalzo su un sottopasso ferroviario. E legno poco esibito, anzi pressoché invisibile all’esterno, secondo la scelta felicemente pudica di rinunciare alla retorica facile dell’impiallacciatura di facciata, all’origine di troppi pseudo-chalet urbani.
Luccicante sperone sospeso sui treni in corsa lenta, l’“ufficio verde” rappresenta al meglio tanto i pregi dell’operazione Clichy Batignolles – ad esempio la ricerca di nuovi processi, morfologie, linguaggi e tecnologie per la costruzione della città contemporanea – quanto, involontariamente, la sua fondamentale contraddizione. Qui come altrove, prosegue l’erosione inesorabile del poco vuoto disponibile nel cuore già saturo della metropoli parigina, un processo nel quale la contrattazione tra le norme imposte dalla regia pubblica e le esigenze del mercato immobiliare trova solo saltuariamente una combinazione felice.
‒ Alessandro Benetti
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