Biennale di Venezia. Labirinti e distopie
Passeggiata veneziana dedicata ai temi del doppio, del perturbante e del distopico. Che abbraccia la mostra scissa di Ralph Rugoff e un trittico di partecipazioni nazionali. Con il corpo assoluto protagonista. Resoconto-bussola per muoversi a Venezia tra Giardini e Arsenale. C’è anche una bocciatura.
I temi del doppio e del disorientamento hanno un peso rilevante nella mostra internazionale di questa Biennale 2019. Anche il titolo sibillino, May You Live in Interesting Times, è sottilmente ambivalente. Idem sul piano allestitivo, visto che il progetto è scisso in se stesso. Per ogni artista ci sono infatti due opere o gruppi di opere posizionati a (notevole) distanza, una al padiglione centrale ai Giardini e un’altra all’Arsenale. Non risultano precedenti per questo tipo di impostazione. Nei giorni della press preview la tendenza era di attraversare l’esposizione più volte, avanti e indietro. L’intento di ritrovare un determinato artista all’altro capo della mostra può aver stuzzicato le menti. L’invito è a fare altrettanto, la mostra è buona, per cui ne vale la pena; oltretutto è formativo provare a riconoscere una stessa mano, ops, una stessa testa. Qui è nostra intenzione concentrarci sulle opere selezionate. Lo facciamo proponendo una carrellata di highlights inerente le tematiche del doppio, del labirinto e del perturbante, una breve lista di opere scopertamente psych, che sono anche tra le più rimarchevoli in assoluto. Aggiungiamo un trittico di partecipazioni nazionali (i padiglioni italiano, austriaco e turco), le cui proposte sono in linea con il concept in questione. Il tutto a suggerire una possibile passeggiata tematica, un tracciato di fruizione in grado di collegare progetti separati.
KAARI UPSON
Iniziamo dalla video-installazione di Kaari Upson (San Bernardino, USA, 1972; vive a Los Angeles) dal titolo There is no such things outside, per noi l’opera-bomba di questa Biennale 2019, tutta giocata sul tema del doppio. Su più schermi vengono proiettati video che si riallacciano l’uno all’altro, senza priorità narrative precise. Sono posizionati attorno a un grande palco, che è esso stesso elemento straniante. Si tratta infatti anche di un solaio, perché ospita, sia sopra che sotto di esso, elementi d’arredo ed effetti personali, riprodotti a grandezza naturale o ingranditi. Tali oggetti finiscono col risultare relitti da un sogno lucido. I video forniscono ulteriori indizi su quanto abbiamo davanti agli occhi. Due donne parlano e agiscono in modo morboso e parossistico; sono truccate in modo da apparire bambole viventi, hanno tratti esageratamente marcati, sembrano alieni creati dal delirio della chirurgia estetica. Spostano mobili, li sistemano, si danno manforte l’un l’altra, sono spettri gemelli che si muovono – una è perennemente sorridente – all’interno di stanze rosse, di ambienti claustrofobici senza possibilità di uscita, come dopo il compimento di un delitto. Il pensiero va al David Lynch di Mulholland Drive, le tonalità sangue e le inquadrature senza sbocchi fanno pensare ai quadri più isterici di Francis Bacon. Tutto nasce dalla scoperta fatta dall’artista che la propria madre e un’amica di quest’ultima hanno realizzato – entrambe – delle case di bambole, ossia repliche in scala ridotta di case in cui hanno abitato nel passato. Così, l’artista si è spinta a incrociarne soggettività ed emotività, immaginando le due donne mentre trasformano le loro “segrete” in un rifugio comune. Il risultato è tesissimo, l’opera ipnotizza ed è una vera gemma scura.
SUN YUAN E PENG YU
Altrettanto perturbante e inerente il tema del doppio, benché di strutturazione più concettualista e contenuto più immediatamente “politico”, è la coppia di lavori del duo cinese Sun Yuan (Pechino, 1972) e Peng Yu (Jiamusi, Cina, 1974; vive a Pechino). Il pubblico li ha immediatamente apprezzati, sono di grande impatto, costituiscono l’attrattiva più spettacolare dell’intera Biennale. Ci concentriamo su quello al Padiglione Centrale ai Giardini, intitolato Can’t help myself, l’opera più fotografata in Laguna quest’anno. Si tratta di un grosso braccio robotico culminante in una pala dotata di spazzola, simile a quelli utilizzati in ambito industriale, ad esempio per la verniciatura di elementi tridimensionali di morfologia complessa. Il braccio si muove a 360 gradi, allungandosi e ruotando su se stesso, per andare a contenere la dispersione di un liquame rosso, così denso da risultare nero: è chiaramente sangue. Il tema del doppio innerva in profondità questo lavoro: è un macchinario che effettua movimenti in apparenza nervosi, impulsivi, tipici dei corpi organici, animati; e tuttavia, le manovre con cui contiene lo spargimento di sangue danno esiti perfettamente geometrici, sorprendentemente astratti, “insensibili” quindi. I richiami metaforici alla gestione del potere, alle ambiguità connesse alla funzione di protezione e controllo del potere stesso, sono messi in campo alla perfezione, con un’ambivalenza del tutto interna al funzionamento dell’opera. Un lavoro abile e potente, che rapisce l’osservatore senza bisogno di didascalismi. Con il solo punto debole del titolo un po’ cartoonesco. Si trova nella hall (diciamo così) del Padiglione Centrale. Bene ha fatto il curatore Ralph Rugoff a “nascondere” questo spazio solitamente introduttivo (ci si arriva solo lateralmente) così da somministrare l’opera, che è di dimensioni ragguardevoli, al visitatore come visione improvvisa e inattesa.
ANDRA URSUŢA
Nei paraggi, sempre al Padiglione Centrale ai Giardini, spicca la serie di assemblaggi oggettuali intitolata Divorce dump, opera di Andra Ursuţa (Salonta, Romania, 1979; vive a New York). Si tratta di riproduzioni di gabbie toraciche umane, di sezioni di parti del corpo idealmente sventrate, che vanno a svolgere la funzione di cestini della spazzatura, di una spazzatura prettamente esistenziale, costituita da oggetti d’affezione rinnegati, perché emotivamente connessi a un matrimonio fallito. Ottima la scelta di allestirli a parete a mezza altezza, come veri contenitori dei rifiuti: il visitatore va a scrutarne il contenuto presupponendo connotati viscerali. Qui ci si sposta su tonalità da un lato ciniche e pop, dall’altro intime e personali. Sono lavori tanto commoventi quanto noncuranti. La mossa-chiave è l’utilizzo di buste di plastica colorate aventi la medesima funzione della gabbia toracica che vanno a rivestire. Così, ciò che è avvolto dalle costole (borse, una fede nuziale, pupazzi, un tablet, e così via) scintilla di una luce speciale e spietata. Della stessa artista è presente all’Arsenale un corpus di sculture realizzate in vetro grazie a un programma di modellazione 3D. Sono lavori meno compositi, formalmente più classici. Presenze deformi, qua e là rassomigliano a grossi insetti, oppure a alieni immaginari, potrebbero essere visioni decadenti alla Hans Ruedi Giger, ma una leggerezza sfuggente le affranca da esiti di quel tipo. Si tratta di sculture certamente cupe ma impressionistiche, fantasmatiche. I titoli sono da brividi. Eccone uno: Impersonal growth – I don’t feel at home in the world anymore.
JON RAFMAN, ED ATKINS
Altri lavori psych colpiscono nel segno, ne segnaliamo un paio. Il primo è l’opera video Dream journal 2016/2019 del canadese Jon Rafman (Montreal, 1981), cui è dedicata una vasta sala adibita a cinema, dotata di speciali poltroncine vibranti. Una volta seduti, si accede a un labirinto di visioni rette da una struttura narrativa onirica. Si assiste a un’Odissea rutilante e distopica, piena di mostruosità rese plausibili dal gran numero di dettagli pop. Un incubo di un’ora circa, senza apparente via d’uscita, costruito per variazioni sceniche fantasiose e disturbanti, con connotati di videogame sardonico. La protagonista ed eroina è la sola creatura del tutto umana in mezzo a spaventosi umanoidi. Il nome della ragazza la dice lunga sull’orrore che la circonda: si chiama Xanax Girl. Per farsi riconoscere, al posto della carta d’identità ha un codice a barre stampigliato nella parte interna dell’occhio destro. Un’ottima prova, un grand guignol futuribile e rinfrescante. Il surrealismo si è dotato di joystick e lotta (ancora) insieme a noi.
Altra partecipazione da segnalare è quella di Ed Atkins (Oxford, 1981; vive a Londra), che ha preferito una linea diversa, interstiziale e subliminale. Ha disseminato l’intera mostra di piccoli disegni, dieci in tutto, in cui ha raffigurato se stesso come tarantola dalla testa umana. Colpisce e spiazza l’espressione tutt’altro che kafkiana del suo volto, che ricambia lo sguardo dell’osservatore con aria consapevole e distesa, illuminata, spesso in posizione capovolta. Sorride come una Monna Lisa mentre risale avambracci o palmi di mani aperte. Sono operette low profile di assoluto valore, si accendono di senso e sovversione in virtù di un titolo-didascalia, criptico ma luminoso, che campeggia entro il disegno stesso, vergato con caratteri cubitali e appuntiti. La scritta, posizionata in basso al centro, recita Bloom; è tronfia come quella di un brand, eppure suona come suggerimento recondito. Perfetta la scelta del font in stile videogioco. La proposta è tra le più raffinate esposta in Laguna, sono disegni che consiglieremmo a un collezionista avveduto.
IL PADIGLIONE ITALIA
Uscendo dalla mostra internazionale, per rimanere nel mood segnaliamo un ideale trittico di partecipazioni nazionali composto dai padiglioni italiano, austriaco e turco. Cominciamo dal nostro padiglione nazionale. Il progetto del curatore Milovan Farronato fa del labirinto, tema psych per eccellenza, il concept chiave. Ci siamo perciò precipitati a visitarlo, avendo in mente di scrivere questo piccolo reportage di taglio tematico. La delusione è cocente. Non certo per l’idea curatoriale “forte” di creare un luogo vertiginoso e destabilizzante che costringa il visitatore a visioni improvvise e sorprendenti, come in certi film horror in cui i protagonisti, anziché correre, incomprensibilmente rallentano. No, questo anzi costituisce un’attrattiva rispetto al progetto. Ciò che non funziona, molto semplicemente, è la formalizzazione di tale intento. I tanti pannelli divisori bianchi che strutturano il padiglione evocano, più che il labirinto, il white cube; quando poi risultano molto bassi rispetto allo spazio in cui insistono, come nel secondo ambiente, fanno pensare a fiere o sagre al coperto. Ammettiamolo: un dedalo avente un layout del genere non funziona, si rimane a metà strada tra il voler creare una dimensione gotica e il voler comunicare un’allure contemporary (l’espressione white cube non a caso rimanda al cubo, figura concettualmente opposta al labirinto). Col risultato che l’effetto smarrimento non parte proprio. Le opere di Liliana Moro (Milano, 1961) e Chiara Fumai (Roma, 1978 ‒ Bari, 2017) sono certamente buone, ma non le più adatte a un progetto curatoriale formalizzato in questo modo. Più congeniali sarebbero state quelle di Enrico David (Ancora, 1966; vive a Londra), solo che purtroppo le sue sculture deludono, essendo decadenti senza essere conturbanti. Un’occasione fallita, purtroppo, tra le tante che annovera, verrebbe da dire fatalmente, l’assegnazione all’Italia di questo difficile (va detto) spazio alle Tese delle Vergini.
IL PADIGLIONE AUSTRIACO
Le altre partecipazioni nazionali da inserire in questa carrellata sono l’austriaca e la turca. In entrambi i casi c’è una donna protagonista di un progetto monografico. Il padiglione austriaco è appannaggio di Renate Bertlmann (Vienna, 1943) ed è un omaggio, diremmo doveroso, all’importanza del suo lavoro. L’artista è intervenuta con due grandi installazioni per così dire di contorno. Sulla facciata del padiglione ha posizionato la scritta in corsivo Amo ergo sum, sospendendola a una certa distanza dalla superficie muraria, sì da proiettare, sulla facciata stessa, la sua nera ombra. Nella corte interna ha invece collocato un vero e proprio plotone fatto di rose in vetro (realizzate dai vetrai di Murano). Anche qui c’è il risvolto della medaglia: si tratta di fiori, ma anche di sottili e acuminate spade. Interventi abili, certo di maniera, coerenti però con il suo meraviglioso teatro dell’ambivalenza. Il resto del padiglione è un grande display cartografico della sua produzione, una vera retrospettiva documentale, messa su con intelligenza, senza pedanterie filologiche. Disegni, foto da performance, appunti, possono essere fruiti impressionisticamente, in stato di muta contemplazione. Vale la pena fare un salto. Sono immagini da una carriera artistica che ha affrontato i temi del corpo e della sessualità desiderante con una radicalità e una grazia forse insuperate. Ci sono persino acuti, che non possono non stamparsi nella mente, in cui il perturbante e il commovente arrivano miracolosamente a congiungersi.
IL PADIGLIONE TURCO
Infine, al padiglione turco è di scena Inci Eviner (Ankara, 1956; vive a Istanbul), vero talento nel disegno, capace di intricate e tenebrose fantasticherie caratterizzate da una sbrigliatezza mirabile, calligrafica. La propensione per il bianco e nero la rende particolarmente severa. Il suo universo psych formalmente filamentoso è centrato sulla figura umana, ossessioni e paure assumono sembianze per lo più figurali. Per la Biennale ha ideato una struttura architettonica complessa, immersiva e percorribile (più di venti altoparlanti, scale, pendii, l’ha definita “isola”), in cui opere di vario tipo vanno a costituire stimolatori d’attenzione per il visitatore che cerca di padroneggiarne i numerosi anfratti. Cupi, cupissimi sono i video ipnotici in cui l’incomunicabilità tra soggetti si traduce in anamorfosi assurde, in cui corpi umani appaiono compenetrarsi e liquefarsi. Notevole un lavoro tridimensionale: è lo scheletro di un letto a castello virtualmente spezzato a metà, con affilati spuntoni che affiorano dal lato compromesso. Peccato per i non molti disegni presenti, ambito in cui l’artista eccelle. Ma qui il tentativo “wagneriano” era di mettere su una piccola “opera d’arte totale”, per consentire un avvicinamento un po’ spettacolare alla poetica dell’artista.
‒ Pericle Guaglianone
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