Bologna la performante
Mi raccomando, non chiamatelo ‘festival’. Semmai, ‘settimana delle arti dal vivo’. “Live Arts Week”, il nuovo progetto di Xing per Bologna, si avvicina all’esordio del 24 aprile. Ne abbiamo parlato con i curatori Daniele Gasparinetti, Silvia Fanti e Andrea Lissoni.
Quali sono le originalità di Live Arts Week?
Di particolarmente inedito c’è la formula con cui vengono presentati degli oggetti, il pensiero sulle modalità con cui vengono recepiti, vissuti e abitati. Ci siamo posti anche il problema di come nominare questa macro-area, che con F.I.S.Co. si orientava alle performing arts e con Netmage ai live media – arti elettroniche che toccavano il suono, la visione e anche l’azione. In questo caso abbiamo ragionato su una categoria ampia, quella delle live arts, che certo non è nuova, ma ci sembrava importante utilizzarla per non ricadere nella questione del genere e ragionare piuttosto su un campo di intervento.
Quali sono i rapporti con l’arte contemporanea?
Volevamo evitare di cadere nel macro-genere delle “arti contemporanee”. Se avessimo voluto banalizzare, avremmo potuto fare un festival delle arti contemporanee che sostanzialmente si occupa di performing arts e cinema sperimentale, ma sarebbe stata una semplificazione che non ci appartiene. Noi non ci occupiamo di arti contemporanee, nel senso di “sistema”: non siamo legati alla base strutturale di quel sistema, al suo mercato, cioè un mondo di compravendita di oggetti, fatto di gallerie ecc. L’arte contemporanea è ancora diretta da quel core business. Noi invece siamo dei ricercatori e, pur interagendo con alcuni operatori di quel sistema, di fatto il nostro lavoro di spin-off non è direttamente collegato, è molto più eventuale. Teniamo aperte delle possibilità di ritorno alle forme di teatro non tradizionale, o a quelle della musica. Insomma, il nostro sforzo non è monodirezionale.
Torniamo allora all’originalità della Live Arts Week…
La cosa, in realtà, davvero nuova è che, a differenza di altri festival, stiamo provando a mettere scene differenti nello stesso frame spazio-temporale. Durante la settimana si incontreranno artisti che spesso non si sono mai incontrati e frequentati, un mescolamento di scene nel quale potranno succedere cose interessanti e nascere esperienze nuove.
Parlate di ‘festival’, però questo progetto vuole in parte prendere le distanze da quel format. Quali sono le motivazioni?
Desideravamo spingere i limiti di nomi e concetti, perciò abbiamo voluto elidere la questione – implicita nel termine ‘festival’ – del consumismo, della fretta, il dover avere un palinsesto pieno che costringe il pubblico a correre da un punto all’altro. Abbiamo lavorato piuttosto sulla modalità della distensione, con cui seguire i diversi oggetti proposti. È chiaro poi che la parola ‘festival’ salta comunque fuori, perché Live Arts Week è un progetto ben delineato, con un suo inizio e una sua fine, ma non ci volevamo spendere sotto questo tipo di etichetta, perché si tratta di ricalibrare, di ridare spessore al tempo. Se vogliamo, è una piccola provocazione, che però corrisponde a una scelta precisa.
Parliamo dei legami che ha Bologna con le arti performative.
Esistono dei riferimenti storici importanti: negli Anni Settanta Bologna ha ospitato la Settimana della performance, anche se aveva una struttura molto diversa da quella che proponiamo noi. Ci interessa, perciò, anche rispetto a una storia e a una genealogia, avvicinarci più a quelle forme di distensione, di presentazione e di novità piuttosto che a altre occasioni frettolose. Non è però il festival della lentezza, perché verranno presentate anche creazioni che hanno bisogno di una loro velocità. Vorremmo però provare a dare un tempo alle persone. Solo alla fine capiremo se ci siamo riusciti.
Com’è strutturato il progetto?
Il programma è fatto in modo tale da non perdersi niente. Nei festival questo non avviene, perché di solito si hanno delle contemporaneità in luoghi diversi. In tutti i casi, questa è solo una possibilità fra le tante. Invece, dal punto di vista delle motivazioni e delle scelte, si è voluto costruire una piattaforma di forti singolarità, spesso legate da percorsi. In alcune opere la questione processuale è piuttosto importante, quindi per noi si è trattato di ragionare non solo su un output definito, ma anche su come esporre il progress dei lavori, e questo lo puoi fare solo in una cornice che ti consente una partecipazione più distesa.
Puntate anche a una intersezione di pubblici differenti?
La commistione dei pubblici è legata alla scala di rapporti tra eventi e luoghi. La scelta forte, pur con una proposta molto particolare e non classica come la nostra, è stata quella di avere come luogo centrale del progetto Palazzo Re Enzo, nel cuore del centro storico di Bologna, al quale si affiancano altri spazi satellite con una propria specifica identità. Questo significa esporsi, essere visibili, e quindi accogliere sia un pubblico estremamente preparato e motivato, sia chi si affaccia semplicemente perché c’è un accadimento nella città. Quindi il range di chi partecipa è molto ampio.
Per questo ci piace parlare di ‘scene’, perché la parola ‘scena’ consente di superare le discipline, i generi e il pubblico che vi è legato. Intrecciare le scene significa lavorare anche sull’automatismo per il quale i pubblici si mischiano: li collochi all’interno di un certo contesto e li avrai necessariamente mescolati; li inserisci all’interno di uno stesso palinsesto e avrai delle frequentazioni che possono toccarsi, o forse no, perché poi ognuno frequenterà la scena a cui si sente di appartenere, che gli è più vicina.
Piuttosto, il “suicidio” di Live Arts Week è che il 50% degli artisti presenti non ha, in Europa o in Italia, una vera e propria scena. Possono agganciarsi o meno a delle scene attive. Questo è il vero azzardo. Se avessimo invitato i nomi di punta di alcune scene, sarebbe stato un automatismo sciocco. La nostra è invece una scommessa più difficile.
Nelle precedenti edizioni, F.I.S.Co. era sempre associato a un titolo con il quale si evocava la possibilità d’indagine intorno a un discorso legato alle performing arts. In maniera analoga, a Live Arts Week è associato un nome piuttosto criptico, Gianni Peng. Cosa significa?
Gianni Peng è un nome. Però non ci interessa la faccia che si può incollare su questo nome e cognome, quanto l’idea di una ibridazione. È un concetto, qualcosa di bastardo, che non appartiene a una specifica cultura, ma è il prodotto di un incrocio tra mondi. Riguarda la selezione che abbiamo fatto sugli immaginari e Gianni Peng corrisponde a una multi-appartenenza, cinese e popolare italiana. Queste due appartenenze stanno producendo qualcosa che probabilmente non possiede alcuna appartenenza; o non lo sappiamo, lo dobbiamo andare a indagare nei prossimi anni. Il panorama sociale e culturale del futuro sarà determinato da questo, invaso da non-appartenenti, da mutanti, da strane figure.
Come si traduce concretamente questo approccio nella Live Arts Week?
Questa tendenza è testimoniata dalla presenza di oggetti che appartengono a estetiche molto diverse l’una dall’altra. Quindi, se dovessimo dire – a proposito del pensiero Gianni Peng – che cosa accomuna le proposte presentate nel progetto, diremmo radicalità d’approccio, perché gli artisti presenti sono tutti dei “fuori serie” molto determinati, noti e meno noti, e loro stessi hanno difficoltà a collocarsi all’interno di generi e discipline. Abbiamo disegnato un collettivo di non-identità. O di ricercatori. O di pazzi furiosi.
Fabio Acca
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