Biennale di Sharjah. Recensione dell’edizione 14esima

Si conclude la 14ma edizione della Biennale di Sharjah, risultato ben riuscito di una magistrale direzione artistica e di una filosofia che mette il pubblico al primo posto. Tante anche le novità: un nuovo direttore per le collezioni e l’annuncio della nascita di un nuovo spazio nel 2022.

Si è da poco conclusa la14ema edizione della Biennale di Sharjah, confermatasi essere l’evento più significativo per la promozione di arte contemporanea nella regione. Sviluppatasi intorno al tema ‘Leaving the Echo Chamber’, con riferimento alla fuga dal sistema autoreferenziale creato dai media, curata da Zoe Butt, Omar Kholeif e Claire Tancons, la mostra ha raccolto opere di oltre 80 artisti, al settanta percento nuove committenze, in una rassegna che geograficamente spazia dalla Nuova Zelanda ai Caraibi con un’attenzione particolare alle tormentate regioni del Medio Oriente, Afghanistan, Pakistan e Libano per citarne alcune. Assente l’Italia e poca, pochissima Europa, come in parte anticipato dalla scelta dei curatori e dalle loro zone di competenza e ricerca.

I CURATORI

Azzeccata la decisione della direttrice della Biennale, Hoor Al Quasimi, di affidare la gestione di questa edizione a tre distinti curatori il cui percorso di ricerca, pur partendo da un terreno comune che trova radici profonde nelle problematiche investigate dall’arte post-coloniale, approda a soluzioni diverse che si incontrano tangenzialmente e solo occasionalmente si sovrappongono. Le narrative d’impatto messe in scena in Journey Beyond the Arrow, la mostra curata da Zoe Butt, che si concentrano su temi quali la migrazione dei popoli e gli strumenti che ne hanno garantito la sopravvivenza a discapito dello sfruttamento del colonialismo, dei conflitti  religiosi e dell’estremismo ideologico, fanno da contraltare alle provocative installazioni proposte in Look for Me All Around You di Claire Tancons, dove ai temi della disappropriazione e della diaspora viene data forma attraverso installazioni iperconcettuali in cui i segni, i suoni, le presenze passeggere e i linguaggi codificati esortano il visitatore a cercare al di là di ciò che si può tangibilmente vedere. Non sono mancate le performances che caratterizzano lo stile curatoriale di Tancons e che hanno invaso gli spazi pubblici di Sharjah e della sua enclave sul Golfo di Oman, la cittadina di Kalba. Le suggestive e coreografiche processioni, che spesso portano in scena lo smarrimento dei popoli in diaspora, cadenzano un ritmo lento e ancestrale che sembra quasi voler dare un freno al tempo frenetico a cui si riferisce Omar Kholeif in Making New Time; un tempo accelerato dall’avvento del digitale, portatore di chaos, indomabile, che a suo piacimento deforma il corso degli eventi e della storia. A sé stante l’excursus di Omar Kholeif nell’arte degli anni 60/70, una piacevole deviazione dai temi politici a favore di una ricerca più introspettiva, una ‘spotlight’ su artisti che secondo Kholeif meritano maggior riconoscimento, come Huguette Caland, Lubaina Himid, Semiha Berksoy, Marwan e Astrid Klein. È così che ‘Leaving the Echo chamber’, pur non avendo pretese di dare risposte alle seppur sollevate questioni sul ruolo dell’arte all’interno del sistema a circuito chiuso proposto dai media, propone un convincente numero di alternative e lo fa senza lasciare terreni inesplorati.

Otobong Nkanga

Otobong Nkanga

LE OPERE IN MOSTRA

Fra gli ariosi corridoi del Sharjah Art Museum stupiscono e incantano gli arazzi dell’artista afghano Khadim Ali. La sua serie di lavori, intitolata Flower of Evil, investiga la normalizzazione della violenza in Afghanistan mettendo in scena simboli e figure chiave del linguaggio propagandistico, strumento caro all’estremismo ideologico e religioso del suo paese. Le sue tele, ricamate a mano, intrecciano con naturalezza elementi tipici della mitologia, ispirati alla natura e fuori dal tempo, a immagini di un’attualità pungente; guerrieri mujaheddin impugnano i loro fucili fra i campi di papaveri mentre soldati americani osservano le loro bandiere che vengono divorate dalle fiamme. Anche l’artista Shezad Dawood, londinese di origini pakistane, affronta le conseguenze delle interferenze occidentali in Pakistan, con un progetto che riceve una menzione speciale durante la cerimonia di apertura. La sua installazione, Encroachments, commissionata da Omar Kholeif, è un’esperienza di realtà virtuale che porta in vita memorie dimenticate. Elemento centrale dell’opera è la vecchia ambasciata Americana a Lahore, disegnata da Richard Neutra alla fine degli anni ‘50, retaggio delle politiche americane durante la Guerra Fredda e simbolo indiscusso della lunga storia di interferenze degli Stati Uniti nel paese. Un’intrusione diversa, ma non per questo meno insidiosa, è quella culturale ed economica descritta nell’impressionante installazione scultorea dell’artista filippino Kidlat Tahimik che mette in scena le contraddizioni della cultura consumistica e di massa che esorta a venerare le deità di Hollywood a discapito di tradizioni e know-how locali. Il giordano Lawrence Abu Hamdan investiga invece le lacerazioni della guerra civile in Libano negli anni 80 con un singolare video documentario sulla vita di Bassel Abi Chahine, storico e scrittore della guerra civile, presunta reincarnazione di un giovane soldato ucciso in Libano nel 1984. Una storia di vita oltre la morte, intrecciata alla storia politica del Libano e alle sanguinose lotte fra i suoi partiti. Le commissioni di Jon Rafman, un fumetto dai toni apocalittici ideato in collaborazione con l’illustratore Connor Willumsen ed un video fantascientifico in cui l’artista si immagina prigioniero della propria mente, confermano l’interesse dell’artista ad investigare realtaà post-moderne in cui tecnologia ed oscure forze, conseguenze del post-capitalismo, intervengono sulla psiche umana dipingendo mondi che non si discostano troppo dalle realtà virtuali proposte da Ian Cheng in Emissaries, una simulazione digitale che, sfuggendo al controllo dell’artista stesso, si rigenera continuamente creando caotici mondi governati da intelligenze artificiali. L’installazione site-specific degli artisti nigeriani Otobong Nkanga ed Emeka Ogboh, Aging Ruins Dreaming Only to Recall the Hard Chisel from the Past vince il premio della critica, il Sharjah Biennial Prize. Attraverso un intervento sullo spazio esistente, un cortile di una delle case della fondazione, e la creazione di un nuovo eco-sistema, risultato della convivenza di elementi organici e tecnologici, gli artisti riflettono sulle potenzialità di rinascita in un inziale contesto di non-vita.

HOOR AL QUASIMI- UNA LINEA DIRETTIVA IMPRONTATA SULL’AUDIENCE MAKING

La storia del successo della Biennale di Sharjah è strettamente legata alla storia della sua direttrice, Hoor al Qassimi. Dopo una visita a Documenta 11 nel 2002, anno in cui ne era stata affidata la direzione al curatore nigeriano Okwui Enwezor, con una rassegna particolarmente varia e fresca, Hoor, al tempo studentessa di arte a Londra, rimane colpita dal potenziale della mostra, piattaforma in grado di dare voce ad espressioni artistiche che altrimenti resterebbero inascoltate. Per la prima volta guarda alla Biennale di casa, fondata da suo padre, lo sceicco e ‘ruler’ di Sharjah Muhammad Al Quassimi, nel 1993, con occhi diversi. Gli occhi di chi ne comprende l’incredibile potenziale ma anche i limiti legati ad un’impostazione presa in prestito dall’estero che mal si adatta alle esigenze locali. Strutturata secondo i dettami tradizionali della Biennale, con artisti chiamati a rappresentare le nazioni partecipanti, la Biennale di Sharjah si svolgeva da una decina di anni senza risvegliare l’interesse della critica internazionale, gravitando in una dimensione prevalentemente domestica. Hoor ne diventa il direttore artistico nel 2003 e ne cambia radicalmente le sorti. La tradizionale partecipazione per nazione viene abbandonata a favore di un approccio che da spazio all’artista e al singolo progetto. E soprattutto al pubblico. L’interesse principale di Hoor è quello di garantire una continuità al processo di audience making che comincia durante la Biennale e che non deve interrompersi al suo termine. Fondamentale è mantenere vivo quel dialogo, quel rapporto speciale che si instaura fra artista e pubblico durante la mostra. È in quest’ottica che va vista la nascita della Sharjah Art Foundation nel 2009, significativo esempio del successo del sistema messo in piedi da Al Qasimi.

Shezad Dawood

Shezad Dawood

LA NOMINA A KHOLEIF

Proprio in concomitanza con la fine della biennale è stata mosso un ulteriore passo in questa direzione con l’annuncio ufficiale della nomina di Omar Kholeif a nuovo Direttore delle Collezioni e Senior Curator della fondazione. Un ruolo che gli permetterà di gestire le acquisizioni della fondazione e di curarne l’annuale programma di mostre. Contestualmente è stata annunciate l’apertura, prevista per il 2022, di un nuovo spazio, il Jurainah Art Space, che sarà in parte adibito a contenere gli oltre 1000 lavori di arte contemporanea della Sharjah Art Foundation e che servirà da archivio di tutte le precedenti Biennali a partire dal 1993. Il nuovo spazio sarà un centro interattivo dedicato a mettere in comunicazione artisti e pubblico, attraverso un programma annuale di mostre e corsi. Come ribadisce Al Quasimi: “a questo punto credo che tutti sappiano qual è l’interesse prevalente della Sharjah Art Foundation: l’artista e il suo pubblico”.

-Bebe Leone

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Benedetta Leone

Benedetta Leone

Dopo una laurea in Storia dell'arte presso l'Università degli Studi di Bologna, persegue un master in Business Internazionale fra I campus di Parigi e Londra dell'università francese ESCP. Per alcuni anni si stabilisce nel sud est asiatico, a Bangkok, dove…

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