Pittura lingua viva. Parola a Lorenzo Di Lucido
Viva, morta o X? 44esimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Lorenzo Di Lucido (Penne, 1983) vive e lavora tra Penne e Milano. Tra le sue mostre personali: La superficie del tempo, Spazio espositivo Francesco Siracusa, Agrigento, 2018; Non è forse perché coltiviamo le nebbie?, Yellow, Varese, 2017; L’adultère durable, con Valentina Perazzini, Villa Contemporanea, Monza, 2017; Il regime dell’immagine, con Luca De Angelis, Scatolabianca, Milano, 2014; In ragione dell’ombra, con Giovanni Blanco, Spazio FAR Rimini, Palazzo del Podestà, 2014. Tra le mostre collettive: Selvatico 12 Foresta. Pittura Natura Animale, Palazzo Marcolini, Forlì, Convento di San Francesco, Bagnacavallo, 2017; Far Off, Fiera di Colonia, 2017; Live Leaves, Studi Festival, Studio di Loris Di Falco, Milano, 2017; Studio Freud, Studi Festival, Studio BG, Milano, 2017; Painters Club, VIR Viafarini-in-residence, Milano, 2017; No Place 2, Catello di Fombio, 2016; Il nocciolo della questione, Museo Bodini, Gemonio, 2016; L’Eroico Manoscritto, Biblioteca Malatestiana, Cesena, 2016; Credere la Luce, Musas, Giulianova, 2016; Imago Mundi, Collezione Luciano Benetton, Fondazione Giorgio Cini, Venezia, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino 2015; Laboratorio di pittura in genere, Omegna, 2015.
Come ti sei avvicinato alla pittura?
Banalmente, ho sempre sentito di doverlo fare. Alcuni aspetti di me mi sono sempre rimasti oscuri e, sin da piccolo, se pensavo a un’operazione da compiere per capirmi un po’ di più pensavo sempre alla pittura. Da sempre è il mio traguardo, è il mio rovello, il pensiero dominante. Concretamente, però, ho iniziato a dipingere tardi, durante gli anni dell’Accademia grazie ad amici, insegnanti e compagni di avventura. Sono sempre stato lento nell’iniziare e anche con la pittura è stato così. Poi mi sono sciolto e non ho voluto fare altro. Io non sono un pittore. Io sono un fissato della pittura, uno che fa fatica a fare altro e che non vorrebbe fare altro.
Da “fissato della pittura”, quali sono i maestri e gli artisti cui guardi?
Non guardo artisti, guardo quadri. Però mi innamoro facilmente. E allora vai con la carrellata di maestri: Andrea Mantegna, Giovanni Bellini, Antonello da Messina, Tiziano, Velázquez, Veronese, Barocci, Bronzino, Raffaello, Cantarini, Artemisia Gentileschi, Guercino, Reni, Annibale Carracci, Mattia Preti, Giudo Cagnacci, Carlo Dolci, Giovanbattista Salvi, Lotto, El Greco, Delacroix, Giandomenico Tiepolo. E poi Bonnard, Manet, Monet, Cézanne, Giovanni Fattori, Pellizza da Volpedo e tanti, tanti altri, tutti morti.
Che ruolo ha il disegno nella tua pratica e in relazione alle tue opere?
Fino a qualche tempo fa credevo di non disegnare e neanche mi rendevo conto che tutti i giorni distruggevo tutto quello che disegnavo. Credo che il ruolo del disegno ora mi sia un poco più chiaro e credo di sentirlo determinante e fondante. Quasi sempre parto da un disegno, da uno scarabocchio o da una immagine mentale, che è soprattutto struttura. In fondo, una superficie per essere tale deve essere determinata, avere cioè una dimensione, una struttura data dalla delimitazione tramite linee. Dalla finestra albertiana, al muro, al quadro, a una architettura, passando per lo schermo cinematografico e arrivando al manifesto pubblicitario: esempi di superfici, superfici delimitate che hanno alla base il di-segno della propria dimensione, del proprio limite.
E il colore?
Il colore per me è complicato. Penso i miei quadri in bianco e nero, come strutturati da impasti di una certa forza e compattezza materica. Adoro il colore, ma sono un pessimo colorista. Mi attrae però sempre di più e vorrei divenisse più importante nelle prossime sessioni di lavoro. Lo capisco da come guardo i dipinti. Il mio sguardo sta cambiando e osservo con sempre più attenzione le relazioni tra i toni, il loro stare insieme nelle superfici dei maestri, il colore usato per velarne un altro, insomma il lavoro cambia insieme al proprio sguardo e il mio sta cambiando in relazione al colore, almeno credo. Lo sguardo è tutto. Un pittore è sempre un occhio.
Figurazione e astrazione: dove finisce una e inizia l’altra?
Per quanto mi riguarda esiste solo la pittura, e forse, ma dico forse, la pittura buona e quella un po’ più cattiva o vigliacca o furba o paracula o chissà cos’altro. Non sento alcun tipo di reale distinzione: io ho sempre solo visto pittura. Mai pittura astratta o concreta o reale o realista. Io, se dipingo, dipingo e basta. Se va bene, dentro la pittura c’è tutto quello che ci deve essere, se invece non va bene è una giornata come un’altra e ho lavorato come fa qualunque essere umano in una qualunque attività. Se vai in un museo e vedi tante opere di un pittore, ti accorgi subito di questo: dipingevano e basta, giorno dopo giorno, erano noiosi e nessuno aveva troppa voglia di dire se quello che faceva era astratto o invece se c’erano dentro le donnine con le sopracciglia dipinte bene.
Col tuo lavoro porti avanti una analisi della superficie pittorica e dei processi che la rendono tale… Come lo hai sviluppato?
Credo che non si sviluppi nulla. Da bambino Monet aveva il desiderio di dipingere l’aria, Picasso era già a sei anni un creatore di forme, Renoir voleva divertirsi e creare piacevolezze, Raffaello era da subito il creatore di un equilibrio cristallino e imprendibile.
Dal primo quadro capisci già quello che senti e fai quello che senti. I pittori fanno ciò di cui hanno bisogno, quelli veri intendo. Perciò il mio modo di lavorare spero sia il più vicino possibile al mio modo di sentire. Per me la pittura è superficie su superficie, impasto su impasto e quadro su quadro, la vedo così, come una serie di procedure che, collassando e adagiandosi l’una sull’altra, danno luogo all’immagine o meglio all’oggetto quadro. Questo è quello che faccio. Faccio quadri, immagini che hanno un corpo, oggetti.
E il tuo fare come si è trasformato nel tempo?
In realtà non si è trasformato. Solo che io sono instabile nel rendere evidente la stessa idea. Sono un eclettico con lei idee fisse e poi mi annoio, mi annoio moltissimo; se mi annoio troppo, la qualità collassa. Non voglio che questo accada.
Perché, a un certo punto, la scelta del monocromo?
Questa è la domanda che mi ci voleva! Semplicemente ho cambiato studio. Quando sono arrivato a Milano, continuavo a lavorare come facevo prima in Abruzzo. Avevo iniziato una serie di superfici e al solito le portavo avanti tutte insieme alternandole; allo stesso tempo stavo lavorando su dei piccoli paesaggi. Poi mi sono bloccato. Sentivo il lavoro troppo cervellotico e costruito e io volevo solo dipingere. Un pomeriggio ho iniziato a spappolare uno dei paesaggi ed era così apparso il primo quadro verde. Non è che mi interessi tanto il verde e neanche il monocromo. Io non li sento così, non sono verdi, sono illeggibili, sono ruvidi, sono difficili da vedere, sono difficili da fotografare, sono quasi scultorei, hanno degli aspetti di incomunicabilità e la pittura per me può essere anche così, ma non l’ho fatto per creare dei monocromi verdi. Volevo solo dipingere, muovermi sul quadro e non fermarmi ogni due ore a pensare per una settimana come facevo prima perché per me era diventato assurdo. Mi dicevo: “Dipingi e non rompere le palle!”.
Quindi, “spappolando” uno dei tuoi paesaggi sei arrivato al monocromo. Molto spesso evidenzi la pars destruens del processo creativo. Mi piacerebbe approfondire questo approccio.
Sotto ogni quadro ce ne sono altri, non sempre, ma quasi sempre. Se in un quadro vedi una tovaglia bianca, sotto quel bianco c’è un altro colore, che compenetra quel bianco. Non esiste pittura senza togliere e aggiungere, questo è un processo costante che ha dentro anche il germe della distruzione. Un quadro esiste perché ha mangiato altre versioni di se stesso che ora stanno dentro il suo stomaco, dentro il suo corpo. Mi succede spessissimo di lavorare sopra quadri che ho già dipinto, di lavorare per via di distruzione, la pittura è anche questo, anche se non solo. Certamente credo che il quadro debba abbandonare alcune versioni di sé per essere quello che è. Anche un pittore che dipinge alla prima può fermarsi un attimo prima o dopo e dare quindi luogo a una prassi che di fatto non è dissimile dal ridipingere. Rappresentare è sempre un piccolo crimine: si deve sempre uccidere o abbandonare qualcosa lungo la realizzazione.
Pentimenti, ripensamenti, errori, cancellature che ruolo svolgono nel tuo lavoro? Quanto spazio ha il dubbio?
Senza ripensamenti, l’autore scompare. Sappiamo che un’opera è originale perché spesso abbiamo prova sulla superficie dei rovelli e delle idee in successione dell’artista. Non ci sono errori in senso stretto, ma a volte capita che semplicemente manchi qualcosa, o magari ci sia qualcosa di troppo. La cancellatura o il ridipingere per me sono molto importanti, nel senso che spesso mi capita di ridipingere e, a dire il vero, mi piace, anche guardando altri quadri di altri autori, vedere o percepire ripensamenti e ridipinture. Di solito, non so esattamente perché, mi sembra che quadri così siano buoni, ma non è sempre così, per fortuna dei pittori con le idee chiare. Io invece di idee chiare non ne ho per niente, per me il campo di battaglia è davvero il quadro e siccome non so cosa accadrà esattamente, allora ecco che accade un po’ di tutto. E a volte il risultato non è quello sperato.
Sono stato recentemente a Parigi grazie alla dolce pazzia della mia compagna. Ah quante belle ridipinture! Ridipinture ovunque. Monet, quello che voleva dipingere acqua e aria, pieno di ridipinture, se guardi le ninfee, be’, sono tutte ridipinte più e più volte fino allo sfinimento delle superfici. Ed è semplicemente fantastico, sapeva perfettamente quello che voleva e ridipingeva, non c’è paradosso.
Che cos’è l’imperfezione?
Non lo so, non è una mia preoccupazione.
Cosa rappresenta per te il tempo?
Non esiste in linea generale, ma esiste qui sulla terra per la mia vita e lo uso nella pittura. La pittura è un passa-tempo nel senso che mentre la fai il tempo passa e questa io credo sia una considerazione non da poco.
Quanto conta la tecnica?
Per me nulla, conta quello che ho da dire e se l’ho detto o ancora no. Non ho mai pensato a problemi tecnici, non ce ne sono. Poi i quadri possono essere riusciti o no, ma io non ne faccio una questione tecnica.
Ci sono formati o tecniche che prediligi?
Ci sono momenti nei quali fisicamente sento più un determinato formato rispetto ad altri e poi in realtà è la dimensione che decide. In linea di massima non sono un autore da quadri giganteschi, ma mi capita di volerne fare perché odio come tutti i miei limiti. Non prediligo particolari tecniche, ma sono abbastanza innamorato dell’olio rispetto ad altri mezzi per dipingere.
La tua è una pittura lenta o veloce?
Io sono un pittore molto veloce che fa quadri molto lentamente. Ho il desiderio prima di morire di dipingere su un solo quadro tutti i giorni per dieci anni, me lo ripeto da anni.
E quando consideri un’opera finita?
Domanda difficilissima, però io credo che a volte senti di aver detto quello che avevi da dire e allora è finita comunque. Alcuni dicono che i bravi pittori sanno quando fermarsi. Io non ho capito cosa vogliono dire e neanche a quali pittori si riferiscano o a quali quadri.
Lavori in studio?
Sì, quasi sempre. Per me lo studio è uno spazio importante anche se mi è capitato di lavorare ovunque. Ora è importante, ed è uno spazio molto intimo. Odio gli studio visit, se posso li evito, sono dannosi il più delle volte e comunque sempre fuorvianti, tanto quanto starsene da soli a massacrarsi davanti alle proprie tele. Nessuno può dirti cosa accade nel tuo studio e nella tua pittura, si è veramente soli.
Come nascono i titoli delle tue opere?
Da letture, incontri, cose sentite o raccontate o dai discorsi che faccio parlando da solo in studio.
Il cinema, la musica, la letteratura influiscono sui tuoi immaginari e sulla tua poetica?
No, generalmente no. La mia poetica è legata solo alla pittura e al fare pittura, all’oggetto quadro. Leggo, ascolto musica e guardo film, ma non trovo legami poetici con quanto cerco di fare in studio.
Cosa significa fare pittura oggi?
Io non penso molto a oggi, non penso molto alla cronaca quotidiana e credo che fare pittura oggi sia come è sempre stato. Certo, c’è alle nostre spalle e nel nostro futuro un numero indefinibile di pippe del tipo “pittura sì, pittura no”, “i primi a riprenderla siamo stati noi”, “quando la facevamo noi era meglio”, “siete rimasti al Medioevo” e sciocchezze di questo genere, ma io non saprei proprio cosa dire a riguardo. Per me disegno, pittura, scultura sono arte oggi come ieri ed è questo l’unico vero discrimine possibile. Cosa sia o cosa non sia arte, e anche qualora sia anche questo un discorso insulso e vuoto, il che è probabile, lo trovo comunque più interessante e accattivante di qualunque disanima sul perché ancora si dipinga o si sia tornato a dipingere.
Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Penso che sia un ottimo momento per la pittura, ma a ben vedere è sempre stato così: la pittura è, ripeto è, italiana. La migliore pittura del mondo è stata fatta da italiani e possiamo ammirarla e studiarla ogni giorno. Non c’è nessuna colpa o senso di nostalgia o mancanza di coraggio nel farlo, se a qualcuno piace la pittura la studia, la vede. E bisogna farlo ferocemente e con passione. Se questo fosse sempre stato fatto, se ci fossero stati gli occhi giusti, da tempo molti pittori italiani sarebbero sulla scena internazionale e non avremmo il problema critico nei confronti della pittura che invece abbiamo. Nessuno la sa più leggere, né vedere, ne parlano tutti adesso ma nessuno ne sa nulla. Proprio adesso che appare sta scomparendo, è già la parola alla moda sulla bocca di tutti. Inutile, i pittori, piuttosto che cavalcare l’onda di un mercato per lo più insulso e falso, oltre che avvilito, dovrebbero chiudersi in studio e uscire quando finalmente si sono di nuovo scordati di loro. Ma la verità è che hanno tutti voglia di finire in quello o in quell’altro spazio, vogliono lavorare con tizio e caio, vogliono il loro lavoro ovunque e su tutti i giornaletti.
Ci sono artisti italiani che ti piacciono?
Il lavoro più preciso, puntuale, appassionato in questi anni in Italia lo hanno fatto gli artisti stessi. Penso ad alcuni esempi: a Landina e a Lorenza Boisi, penso a Massimiliano Fabbri e al suo incredibile Selvatico, ogni volta meglio, penso al collettivo di Yellow del quale faccio parte e nel quale ho ben pochi meriti, composto da altri pittori, Lucia Veronesi, Luca de Angelis, Marco Salvetti e fondato da Vera Portatadino proprio nel momento giusto e per alcuni dei motivi sopra accennati. Si cerca davvero di fare una rendicontazione di quanto vediamo di buono in Italia e all’estero sul fronte prettamente pittorico. Sono solo alcuni esempi e non danno l’idea del numero di progetti creati da pittori per altri pittori. Progetti che hanno cura e autentica passione per la pittura e che sono nati dalla volontà e dalla voglia dei pittori stessi in un teatro nel quale non c’erano referenti soprattutto, è il caso di dirlo, dal punto di vista culturale.
‒ Damiano Gullì
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