Gli artisti e la ceramica. Intervista a Emiliano Maggi
La rubrica dedicata al legame tra gli artisti e la ceramica dà voce a Emiliano Maggi. Tra materia e fantasia.
Emiliano Maggi (Roma, 1977) unisce performance, musica, costumi e ceramica in un percorso libero che oscilla dal rito all’horror. Lo abbiamo incontrato per capire come è nata la sua passione per questo linguaggio e come si inserisce all’interno della sua ricerca.
Nella tua ricerca sembra impossibile isolare la ceramica dagli altri linguaggi. Cosa è per te la ceramica e quando hai capito che era una parte imprescindibile del tuo percorso?
C’è stato da sempre questo legame con la ceramica. Fin da piccolo osservavo un mio zio artista che produceva maschere, marionette ed altri elementi teatrali. L’uso dell’argilla, i gessi e altri materiali ha aperto una visione, il sapere, la storia, la conoscenza, ma soprattutto le possibilità e la forza nel creare. Il momento più importante (dove il materiale ha preso possesso di me) è stato nel 2013 quando, partecipando a una mostra/residenza in Tasmania al Mona Museum, ho avuto la possibilità di apprenderne l’uso dai maestri del luogo. Dal quel momento la ceramica è parte fondamentale del mio lavoro: nella scultura, nella performance, nella musica.
La tua ceramica sembra fondere in sé un certo gusto barocco, penso a installazioni come The Goblin Paradise Ballet, e forme più connesse al mondo arcaico. Quanto della città in cui vivi, Roma, si rispecchia in queste scelte? Oppure credi che questo linguaggio si sarebbe formulato comunque altrove?
Roma ha un ruolo fondamentale, ma anche ‒ e soprattutto ‒ sono stati centrali il percorso e le esperienze avute in altre città come Londra o New York, per poi ritornare alla città di partenza. Un altro luogo che ha caratterizzato fortemente il mio lavoro è la natura, la campagna e il mondo rurale.
La performance ha sempre avuto un ruolo centrale all’interno del tuo percorso e recentemente sembra avere un peso crescente. La tua è una pratica molto vicina ad alcune ricerche performative americane, ma forse sono completamente fuoristrada e quindi ti chiedo: hai dei modelli di riferimento? E di contro: quali sono invece gli artisti che hanno lavorato la ceramica e che più ti hanno influenzato?
La performance è il momento di condivisione, il coinvolgimento, la parte intima (ma di tutti), dove, grazie al suono, la danza e il travestimento, riesco a raggiungere una dimensione.
Il ruolo centrale è sempre giocato dal corpo con la sua politica, i suoi poteri, le potenzialità, le possibilità nel trasformarsi, crescere ed essere. Un balletto burlesco dove i corpi si oppongono, deformi ed erotici. La ceramica è un corpo che segui e poi lasci libero nel suo percorso di crescita, dalla forma alla cottura e smaltatura, può decidere lei il punto di arrivo. I miei modelli di riferimento nella performance e nella ceramica sono infiniti, spesso anonimi o di pura fantasia, o legati al mondo antico. Cerco sempre di essere influenzato, assimilare fino a non ricordare più cosa mi avesse catturato o ispirato.
Nei tuoi lavori una certa fascinazione per l’arcaico pare fondersi con la costruzione di nuovi riti contemporanei. Come si sposano queste due anime nella tua pratica?
Credo che questa sia la parte più interessante del lavoro di un artista, dove l’evoluzione di un progetto o di un’opera prende forme e direzioni libere, naturali e istintive.
Il mondo arcaico è presente nel contemporaneo e semplicemente non se ne può fare a meno.
Hai dichiarato che il tuo primo lavoro in ceramica è stata una maschera dal nome Freddy. Quanto dell’immaginario horror vive ancora nel tuo lavoro e quali sono le tue fonti di riferimento?
Fin da piccolo sono stato ossessionato da un mondo fiabesco e orrorifico, poi ho scoperto il cinema, la fantascienza, il fantasy e gli effetti speciali. Per me era un luogo dove poter scappare, e qui sicuramente ho scoperto il creare. Freddy si rifaceva al Freddy Krueger di A Nightmare on Elm Street e a un Wes Craven maestro dell’horror. Ero un piccolo delinquente, volevo indossare quella maschera e andare in giro in skate, impaurendo le signore che giravano nel quartiere Prati a Roma.
Una delle tue collaborazioni recenti ha visto Gucci come partner tecnico delle tue performance per la Nomas Foundation. Tuttavia la costruzione di costumi di scena popola il tuo immaginario da sempre. Posso chiederti come si è evoluto questo aspetto negli anni?
Come la ceramica, il costume e il tessuto sono una seconda pelle. Con il costume ho potuto studiare la storia dell’arte, dal costume ho imparato molto, a riconoscere non solo la società e i suoi cambiamenti ed evoluzioni, ma anche i singoli individui e le loro storie. Studiando costume al Centro Sperimentale di Cinecittà accanto al costumista Piero Tosi, ho trovato il percorso per sentirmi artista, sentirmi in grado di creare o deformare un carattere o una forma. Nelle performance alla Fondazione Nomas volevo collaborare con qualcuno che avesse queste sensibilità. Gucci e il suo supporto tecnico hanno aggiunto un valore fondamentale producendo stoffe e abiti, coinvolgendo studenti dell’Accademia di Moda e Costume e l’Accademia di Belle Arti di Roma.
‒ Irene Biolchini
Gli artisti e la ceramica #1 ‒ Salvatore Arancio
Gli artisti e la ceramica #2 ‒ Alessandro Pessoli
Gli artisti e la ceramica #3 ‒ Francesco Simeti
Gli artisti e la ceramica #4 ‒ Ornaghi e Prestinari
Gli artisti e la ceramica #5 ‒ Marcella Vanzo
Gli artisti e la ceramica #6 – Lorenza Boisi
Gli artisti e la ceramica #7 – Gianluca Brando
Gli artisti e la ceramica #8 – Alessandro Roma
Gli artisti e la ceramica #9 – Vincenzo Cabiati
Gli artisti e la ceramica #10 – Claudia Losi
Gli artisti e la ceramica #11 – Loredana Longo
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