Trappole dell’acting (VII)

Dallo scambio epistolare con Rebecca Moccia a una nuova analisi dell’arte neovernacolare, Christian Caliandro torna a occuparsi di “trappole dell’acting”.

Cara Rebecca,
stavo pensando a ciò che ci siamo detti al telefono, a proposito della differenza tra artista e “persona d’azione”. Sì, credo che non si possa fare arte, o scrivere, essendo completamente DENTRO l’azione, la tempesta, il caos.
L’arte e la scrittura provengono (necessariamente?) dal di fuori della vita – da una zona esterna, estranea allo scorrere e al flusso dell’esistenza – quando fai arte o scrivi stai pensando e parlando in realtà da un territorio che non fa parte dell’esperienza quotidiana (infatti, il problema principale di molta arte e letteratura odierne è che la maggior parte degli autori – a differenza forse di altre epoche ‒ pretendono di scrivere tutti dentro, dal di dentro, dall’interno, di parlare una lingua comune “diffusa”, quella della “maggioranza”, e pretendono che questo sia non solo un vantaggio pratico – che può essere – ma un vanto culturale, una sorta di “abbattimento-delle-barriere” – quando invece si tratta al massimo di un restringimento, di un rinchiudersi ulteriormente all’interno di confini angusti e anzi di un costruire nuove inutili barriere; invece di sfondare, ma sul serio, quelle che ci sono). L’arte/scrittura dal-di fuori diventa quindi sempre più impervia, e per questo sempre più interessante e decisiva: “Dentro di noi abbiamo un’Ombra: un tipo molto cattivo, molto povero, che dobbiamo accettare” (Carl Gustav Jung).
L’arte/scrittura che proviene da un vuoto – e quel vuoto è l’unica cosa vera che esiste, tra moltissime illusorie – l’arte/scrittura come un’interferenza, qualcosa di non previsto né atteso, il contrario dell’attenzione, qualcosa che non solo distrae e distoglie la concentrazione ma che nasce e cresce proprio nell’attimo della distrazione, che prospera sui margini, sugli spigoli, sui lati.  (Un suono di campanelli elettronici totalmente distorto e immerso in una coltura ambientale – come soffermarsi sull’atmosfera, sull’aria tra i corpi, sugli spazi che separano gli oggetti piuttosto che su corpi e oggetti stessi. Sugli intervalli.)
La metafora della guerra è (purtroppo) sempre valida. È molto raro il caso di chi racconta dopo aver combattuto: lo standard è piuttosto lo stress post-traumatico, la condizione di mutismo che caratterizza i soldati (Prima Guerra Mondiale, Seconda Guerra Mondiale, Vietnam, Iraq, Afghanistan, ecc.). Chi racconta, chi testimonia? Il vigliacco, l’imboscato. Al massimo il reporter embedded, o comunque il giovane giornalista che sta al seguito e a fianco delle pattuglie, ma non nel fuoco dell’azione. È così, per esempio, nel caso di Omaggio alla Catalogna di George Orwell, di Addio alle armi di Ernest Hemingway (che faceva il conducente di ambulanza, e si fece pure ferire) o dei Dispacci di Michael Herr, forse il più bel reportage di guerra che è poi la base per Full Metal Jacket di Kubrick.
L’artista/scrittore/testimone deve stare comunque in qualche modo a distanza – a distanza di sicurezza. Per poter raccontare, non deve essere del tutto coinvolto.

Laboratorio Saccardi, Mondello che piove, 2019

Laboratorio Saccardi, Mondello che piove, 2019

Ciao Christian,
grazie per queste riflessioni. Ti rispondo solo ora perché ero Firenze…
Ti mando il testo della newsletter legata alla mostra (…), in cui ho cercato di spiegare questa idea di catarifrangenza.
Cioè quello che mi sembra più interessante di tutto, che è quello che scrivi anche tu del resto, è che oltre a essere al di fuori, arte e letteratura sono anche magneticamente attratte dall’azione, vivono cioè della condizione perenne di desiderio, desiderio di qualcosa di sconvolgente che non si ha ma che c’è, esiste come epicentro carismatico del mondo, quindi secondo me è proprio una questione di mancanza e insieme di necessaria prossimità.

Andy Warhol, Piss Painting, 1978

Andy Warhol, Piss Painting, 1978

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“…nuovi inizi, occasioni da prendere al volo, vetri infranti, tempo perduto, nuovi legami, sconfitte e conquiste…” (dall’abstract scritto da un allievo di liceo, premio artistico “De Ruggieri”).
Il neovernacolare non lo puoi creare ‒ lo puoi solo riconoscere” (Alice).
Il neovernacolare è preesistente” (Alice).
Il neovernacolare è naïf – e al tempo stesso sofisticato.
Il neovernacolare ha a che fare con l’espressionismo – anche se non si esaurisce in esso.
A Venezia Nane e i suoi amici disegnano col gesso le autostrade: si sogna sempre quello che non si ha” (da L’Italia non è un paese povero, Joris Ivens 1960).
Il neovernacolare esorbita.
Il neovernacolare tracima.
Il neovernacolare è imbarazzante.
Il neovernacolare non si vergogna mai.
Il neovernacolare è crudele (nel senso di Artaud).
Il neovernacolare è brutale, sempre – anche inutilmente brutale.
Il neovernacolare coltiva l’errore, la deviazione, l’abbaglio, la pecca.
Il neovernacolare è costantemente stupido, consapevolmente stupido.
“…attraversare lo squallore dell’inverno – il vuoto che spaura” (da La Passione del Grano, Lino Del Fra 1960, testo di Ernesto De Martino).
Il neovernacolare è contadino.
Il neovernacolare è ancestrale.
Il neovernacolare è primitivo.
Il neovernacolare con monotonia ripete la vicenda quotidiana.
La notte dura fino all’alba. Il sole può essere amico e nemico: aiuta con il suo calore, abbatte con la sua vampa che appesantisce la testa e deforma l’esistenza. Aiutaci, Sole!” (da Magia Lucana, Luigi Di Gianni 1958).

Christian Caliandro

Trappole dell’acting (I). May You Live in Interesting Times
Trappole dell’acting (II). Padiglione Italia. Né altra, né questa
Trappole dell’acting (III). Rebecca Moccia, Fireworks
Trappole dell’acting (IV)
Trappole dell’acting (V)
Trappole dell’acting (VI)

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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