Architetti d’Italia. Franco Albini, il cattivo
Luigi Prestinenza Puglisi analizza l’approccio architettonico di Franco Albini, in bilico tra il Movimento Moderno e un afflato più storicista, attento al rapporto con la città.
Devo ammettere che scrivo questo profilo con grande difficoltà e con una certo timore. Per due ragioni. La prima è che non si può affrontare la questione Franco Albini senza includere Franca Helg, una co-protagonista quasi sempre colpevolmente dimenticata. A lei, infatti, di solito si riservano due o tre citazioni di rito, ma si sfugge al problema principale, cioè il suo ruolo effettivo. Che non fu certo marginale se si considera che, al di fuori della partnership con la Helg, Albini realizzò solo allestimenti, sistemazioni di interni e pochi edifici, mentre quasi tutti i capolavori rientrano nel periodo dal 1952 alla morte di lui, avvenuta nel novembre del 1977, periodo in cui i due lavoravano a firma congiunta.
La seconda questione la sintetizzerei nell’immagine di un doppio rapporto: il primo tra Albini ed Edoardo Persico e il secondo tra Albini e quella Scuola Milanese che in un modo o nell’altro ha fatto riferimento a Ernesto Nathan Rogers, protagonista, contro Reyner Banham, della celebre polemica sui frigoriferi.
Cioè da un lato l’imperativo di una visione lirica del Movimento Moderno, che portò Persico a vedere Albini come uno dei suoi migliori eredi spirituali, e dall’altro un approccio più storicista che, per contrastare la freddezza dell’International Style e di certi suoi derivati, si appassionò alla questione delle preesistenze ambientali, del rapporto con la città, anche a costo di una fuga dai principi del Movimento Moderno. Osservate attentamente opere come la Rinascente di Piazza Fiume a Roma e vedrete che le due anime sono compresenti: da un lato un edificio leggero come la poesia impressionista che Persico tanto amava e dall’altro un palazzo neo-liberty che sembra imitare, per potersi ambientare, le costruzioni ottocentesche che lo circondano, insomma: la cugina ‒ certamente più bella e raffinata ‒ della Torre Velasca di Milano e della palazzina alle Zattere a Venezia.
FRA PERSICO E ROGERS
La mia difficoltà e il mio timore è che le due questioni siano in un certo modo legate e che cioè Franca Helg abbia a che vedere con l’allontanamento di Albini dalle posizioni più radicalmente vicine alla lirica di Edoardo Persico e con l’avvicinamento a quelle di Rogers. A mettermi sull’avviso è stato un articolo scritto da Pierfranco Galliani in cui si sottolinea che i legami culturali tra Franca Helg e la cosiddetta Scuola Milanese erano molto stretti: aveva conosciuto Rogers sin dagli anni giovanili, quando era stata aiuto nello studio dal 1941 al 1943, e soprattutto con Ludovico Belgiojoso, di cui era stata assistente al Politecnico di Milano per molti anni. “Franca Helg” ‒ conclude Galliani ‒ “apparteneva infatti alla cosiddetta Scuola Milanese, nata nell’intento di coniugare i nuovi valori derivati dal Movimento Moderno con quelli propri delle preesistenze e del luogo, nell’incessante presa di coscienza della continua trasformazione della città e dell’avanzamento tecnologico”. La Helg opera quindi quale una figura di mediazione tra “l’astrattismo di Albini e il pragmatismo di Belgiojoso”, ovvero, traducendo nei nostri termini, tra la visione poetica che ad Albini proviene da Persico e quella che apprende da Rogers e dalla sua scuola.
Chi scrive questo profilo nutre una profonda passione per la prima visione e meno per la seconda. Ed è forse il motivo per il quale, pur avendo sempre apprezzato Albini per la sua straordinaria bravura, intravedo nelle sue opere quei tratti, semplificando diremo di milanesità, che apprezzo di meno. E non è un caso, aggiungerei, che critici come Manfredo Tafuri o architetti come Vittorio Gregotti abbiano di lui grandissima considerazione.
Albini, d’altra parte, come tutti i grandi architetti non è facilmente riassumibile in una formula, soprattutto se si considera l’intero arco temporale della sua produzione. Sono numerose le differenze tra gli allestimenti realizzati durante il fascismo, il rifugio Pirovano di Cervinia, le sistemazioni dei palazzi Bianco e Rosso a Genova, il Museo del Tesoro di San Lorenzo, il palazzo per uffici dell’INA a Parma, la Rinascente a Roma, il Museo civico nel complesso degli Eremitani a Padova. Ed è indicativo che dal suo studio, rimanendone fortemente influenzati, siano passati personaggi così diversi come Renzo Piano e Italo Rota. Il primo, forse, apprendendo la regola che una buona architettura è come un buon oggetto di design, sottoposto alla legge di un montaggio chiaro, semplice, rigoroso e tecnicamente perfetto. Il secondo, forse, apprendendo che un buon architetto deve fare ogni volta tabula rasa per affrontare un corpo a corpo con la storia, tutta la storia.
IL “CATTIVO” ARCHITETTO
Ricordo ancora che, in una intervista di qualche mese fa, Rota mi diceva che per essere un buon architetto occorre essere cattivi come un Albini. E alla mia domanda di chiarimenti, mi precisava che la cattiveria è quella capacità dei grandi progettisti di non prendere scorciatoie o fare sconti, costi quel che costi.
Ho letto da qualche parte che il rapporto tra Albini e Persico cominciò con una severissima stroncatura da parte del secondo. Che costrinse Albini addirittura a letto per una settimana. Sicuramente una esagerazione, certo è che pochi architetti sono mai entrati in così vicina sintonia con il grande critico napoletano e condirettore di Casabella. Albini abbandonò le decorazioni apprese allo studio di Gio Ponti e si proiettò verso un sempre più lirico razionalismo artistico. Cioè verso quella visione europea che Persico aveva individuato come la parte più feconda del Movimento Moderno. Ciò voleva dire ricorrere a soluzioni spaziali più che a soluzioni plastiche, rarefacendo il peso degli oggetti e facendoli letteralmente flottare in aria. Eliminando quindi la materia che era il veicolo privilegiato della retorica fascista, per introdurre quel tema del quasi nulla che poco aveva a che vedere con il classicismo di Mies van der Rohe e, nella visione di Persico, era invece l’acquisizione di un’etica che si fondava sull’anti-retorica, sulla guerra all’inutile e allo spreco e su una visone impressionista del mondo: quella in cui si poteva, come Elsie, la protagonista di una novella di Sherwood Anderson, correre liberi nello spazio della natura.
Inutile, perché evidenti, ricordare le analogie tra le poche opere lasciate da Edoardo Persico, quali i negozi Parker e la Sala delle Medaglie d’oro, con la produzione del giovane Albini.
Certo è che l’insegnamento rimarrà negli anni, quando Albini si muoverà verso altre architetture e sarà, come dicevamo prima, influenzato dalla tematica delle preesistenze ambientali e dall’urgenza di un rapporto contestuale con la storia. La libertà spaziale e la capacità di smaterializzare saranno i punti di forza che lo renderanno, a mio giudizio, infinitamente più bravo di personaggi di rilevata statura quali Ignazio Gardella e lo stesso gruppo BBPR. Dirà Zevi, con la consueta lucidità, che Albini sapeva trasformare le cavità “immettendo nella loro rarefatta stesura aggettivi capaci di farle vibrare”.
LA LEGGEREZZA
L’Albini leggero, che riesce a combattere la gravità, credo abbia prodotto tre pezzi insuperabili che ancora hanno bisogni di tempo per essere metabolizzati: non nel senso di essere apprezzati, perché già lo sono, ma nel senso di diventare concreti oggetti di ispirazione per le generazioni a seguire. Sono la scala di Palazzo Rosso che sembra realizzata in corda e legno: un pezzo incredibile di bravura contro la retorica degli scaloni monumentali. La libreria realizzata per tiranti in corda e puntoni, oggi nota come libreria Veliero, che azzera ogni immagine consolidata e ci racconta come, ragionando sulle tensioni, si possa disegnare un mondo di nuovi oggetti ancora non immaginato. Il supporto telescopico realizzato a Palazzo Bianco a Genova per permettere al visitatore di guardare i frammenti della scultura di Giovanni Pisano da infiniti punti di vista, attraverso una fruizione attiva e non passiva dell’opera d’arte e dello spazio che la contiene.
Tralascio di affrontare altre questioni: per esempio l’inserimento in studio, dal 1962, di Antonio Piva e, dal 1965, del figlio Marco Albini. Segno che il racconto sarebbe sicuramente più complicato di quello da me tratteggiato. Ma, in fondo è la pecca e, spero, anche il merito di questa grande serie: volermi ostinare, in un periodo in cui il lavoro è sempre più corale, a tirar fuori dal cappello individualità. Credendo ancora ostinatamente che sono quelle che alla fine tracciano il corso della nostra storia.
‒ Luigi Prestinenza Puglisi
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