Il balletto neoliberista di John Neumeier. A Ravenna
L’Hamburg Ballett di John Neumeier al Ravenna Festival conferma di essere una delle compagnie europee di balletto contemporaneo più interessanti di oggi. Ma con un programma perfettamente in sintonia con il tardocapitalismo globale.
L’Hamburg Ballett è una delle compagnie di balletto contemporaneo più belle d’Europa. Di una certa idea d’Europa, naturalmente, ben disciplinata ed elitaria, aristocratica e tollerante entro spazî e confini però appropriati: un’idea, forse, non proprio oggi la più necessaria. Dal 1973, la compagnia è diretto ed esclusivo monopolio del coreografo statunitense John Neumeier, il quale ha dato vita a uno dei repertori di balletto più intensi e ricchi della storia recente di quest’arte. Ma l’ottantenne Neumeier è anche intelligente divulgatore nonché prolifico collezionista di oggetti e testimonianze relative al mondo della danza. Un mirabile progetto di vita professionale che riafferma, attraverso le sue opere, l’unità storico-culturale della tradizione euroamericana. Un programma culturale che rischia però di rimanere inintelligibile se soltanto celebrato.
ELOGIO DELL’ETEROGENEO
In termini critici, allora, occorre svecchiare la percezione di questo modello di balletto contemporaneo. È necessario sottrarlo a ogni religione del bello come redenzione, e a ogni mistica del passo come commossa restituzione della potenza musicale. Per lasciare anche intravedere, in tanta ossessiva fiducia in un’irreale perfezione, la nuova forza di una mescolanza tutta aproblematica. Le linee di una ibridazione di movimento (ossia la fusione tra vocabolario accademico e sperimentazione modernista) sempre gioiosa perché disciplinata. La promiscuità incondizionata di corpi (e di piedi! punta, scarpette e nudi, tutti compresenti nello stesso brano…) strategicamente normalizzati. Una inclusione finalizzata a produrre e valorizzare istanze un tempo conflittuali, rese ora neutrali. Insomma, John Neumeier coreografa l’elogio supremo all’eterogeneo senza mai un dubbio su ciò che è discorde e difforme. Anzi. Il coreografo ha una vera passione per le biografie di irregolari e sregolate, che si trasformano, nei suoi interminabili drammi ballati, in icone di una nuova merce culturale. Il corpo sofferente come figura della redenzione: da Nijinsky a Beethoven, da Cristo (interpretato, in piena hybris, da lui personalmente) al Gustav von Aschenbach di Tod in Venedig, ma anche ad Anna Karenina ed Eleonora Duse.
COREOGRAFIA ALL YOU CAN EAT
Questa di Ravenna è stata la volta di Beethoven Fragments (estratto dal suo recente Beethoven Project, 2018). Frammenti della biografia del compositore, in scena come una sorta di Coppélia al maschile (lo strepitoso Aleix Martínez), con il complesso del fantoccio, del burattino ribelle, del corpo rotto da redimere, sempre sofferente, sempre rifiutato, reietto, come un perenne martirio di San Sebastiano, si alternano in uno spazio reso esiguo per la presenza dei musicisti e di un pannello rosso lungo una diagonale: uno spazio affollatissimo. La scrittura coreografica di Neumeier è qui asfissiante, continua, ostinata, ansiogena, compulsiva al limite del morboso. In tanta e tale esibita ricchezza (e abilità) di invenzione di entrate, apparizioni e movimento, Neumeier supera di molto il livello dello spreco. Ciò che domina qui è un’ideologia del dispendio coreografico che insegue il memorabile già della musica, in uno sperpero che non ammette economia (e che invece la musica ha). Un processo compositivo della danza sul modello all you can eat: alla fine, il senso di sazietà è, in realtà, sempre pesantezza e strafogaggine. Tanta dissipazione coincide con l’invito imperativo al consumo continuo, alla produzione immateriale ma confezionatissima del sistema neoliberale con cui Neumeier si trova in ottima sintonia, perfettamente padrone del suo (e nostro) tempo. Questo è un balletto che alimenta all’infinito il desiderio di un compimento, e che rimanda sempre alla prossima scena la sua soddisfazione. Come? Attraverso il ricatto dell’interiorità. Molte intuizioni o trovate geniali, infatti, non bastano mai a loro stesse. Neumeier destina a loro sempre il pathos di un contenuto, la promessa di un pieno, la verità dentro la confezione. Un esempio? Alla forma strepitosa di un corpo sospeso e in tensione che esce dalla coda del pianoforte in scena (che meraviglia se fosse la sordità di Beethoven ormai incapace di ascolto perché fisicamente dentro la musica) deve per forza sovrapporsi l’allusione di un contenuto, il prezzo di una interiorità tutta recitata, naturalmente, fino ai confini dello stucchevole, tra mille palpiti e fremiti e aneliti per ogni alcunché. Una sofferente interiorità compensativa di realtà, di cui la scena non avrebbe assolutamente bisogno, attraverso una mimesi mimica totalmente irreale e fuori dal tempo da risultare infatti, come per le migliori pubblicità, sempre credibilissima.
SATURAZIONE POSTMODERNA
Così come nel più astratto Birthday Dances (1990) su musica di Leonard Bernstein, il livello interpretativo è sempre sorprendente, sempre valorizzato individualmente in potenti assoli, così come il continuo passaggio da uno spazio costruito dai corpi per linee e vettori a uno spazio opposto, circolare e labaniano, alla fine non potrebbe renderci più sazi. Il dialogo con i maestri della coreografia americana (tra cui Robbins) è un po’ sempre prevedibile, fino alla fanfara e alla marcia di gruppo del peggior Balanchine militarista (quello di Stars and Stripes, per intenderci): mai un vero problema, mai una stasi, mai una riflessione, però, in questa flessibilissima saturazione postmoderna e postfordista. Nella coreografia di chiusura, At Midnight (2013) sui Rückert Lieder di Gustave Mahler eseguiti dal vivo dalla voce di Benjamin Appl, pur in presenza di invenzioni spaziali intelligentissime (il baritono canta all’inizio di schiena e poi converge la voce in tutto lo spazio), il decorativo nella danza ha sempre il sopravvento, come in quegli orrendi lifts di donne immobilizzate, private della loro soggettività, sollevate e consegnate in sacrificio al cielo. Ma davvero l’appello al mistero o all’idealizzazione può ancora giustificare, oggi, tanta mortificazione?
‒ Stefano Tomassini
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