CampoBase. Un confronto tra curatori e artisti, a Torino
Dopo l’inaugurazione della nuova mostra “There’s a monster coming !”, i ragazzi della settima edizione di Campo – il corso per giovani curatori della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo – raccontano la loro esperienza insieme gli artisti invitati. In previsione dei prossimi mesi, tra attività e progetti, abbiamo fatto una chiacchierata per conoscere quest’ultimo lavoro e le loro prossime intenzioni.
I giovanissimi studenti del collettivo curatoriale CampoBase di Torino inaugurano il loro primo progetto espositivo con gli interventi di Giulia Poppi, Irene Adorni e Flavia Tritto. Con l’esposizione intitolata There’s a monster coming! curatori e artisti riflettono in maniera corale e destrutturata sui tre elementi che compongono alcuni dei concetti fondamentali nella realizzazione di una mostra: la scenografia, il suono e la performance.
Ogni artista opera con una delle componenti prese in esame per intervenire, singolarmente, in uno dei tre differenti processi di stratificazione spaziale e relazionale. Dopo l’estate CampoBase riprenderà la sua programmazione non solo con una serie di incontri dedicati alle performance, con workshop e interventi artistici e teorici, ma anche altri format come crit, screeing e focus. Abbiamo fatto qualche domanda per capire come è andata.
There’s a monster coming! smonta il format della mostra collettiva in tre momenti: scenografia, suono e performance. Qual è stato il punto di partenza per ragionare sull’idea di mostra scomposta? E perché questo titolo?
Il progetto nasce da alcune suggestioni storiche, tra cui il Teatro delle mostre che Plinio De Martiis organizza alla galleria La Tartaruga di Roma nel 1968, e dal desiderio di sperimentare attraverso una mostra l’approccio discorsivo e dialettico che caratterizza la programmazione di CampoBase. La collaborazione, il dialogo, l’orizzontalità non si sviluppano sempre in processi lineari e armonici, ma procedono anche per strappi e frizioni, che necessitano di un paziente lavoro di rammendo e che producono risultati disarmonici, addirittura… mostruosi. Ci sembra significativo che anche questi aspetti della collaborazione vadano in scena. La scomposizione in tre momenti della mostra è perciò funzionale non solo a sviluppare, ma anche a raccontare, il processo di co-costruzione. Il mostro è dunque arrivato a CampoBase, esibendo contestualmente la propria prodigiosità e insieme le proprie deformità.
Gli interventi presentati sono quelli di Giulia Poppi, Irene Adorni e Flavia Tritto. In che modo avete orientato la vostra ricerca e come siete giunti alla scelte dei nomi?
Giulia, Irene e Flavia sono artiste in crescita, come noi: Giulia sta finendo il percorso accademico in Italia, mentre Irene e Flavia hanno recentemente concluso gli studi a Londra, rispettivamente al Goldsmiths e al Central Saint Martin. Le loro pratiche e ricerche ci interessano per questo specifico progetto per il tema della relazione tra spazio, intervento artistico e pubblico, che ciascuna sta sviluppando in modo diverso. Anche le diversità tra di loro ci hanno spinto ad avvicinarle, a farle cortocircuitare, coerentemente con l’idea di fondo del progetto, stimolando il dialogo e anche la dialettica tra ricerche, pratiche, approcci anche molto diversi.
Da qui a due anni, come sarà la sostenibilità di CampoBase e che tipo di progettualità e programmazione avete in mente?
CampoBase sarà attivo sicuramente fino a dicembre 2019: il progetto è nato a gennaio con un arco temporale di azione ben chiaro. In seguito, valuteremo insieme, come collettivo, quale strada percorrere. Attualmente, è un progetto in larga misura autofinanziato. A settembre proseguiremo la programmazione con i nostri format crit, screening e focus, sviluppando in parallelo altri progetti: a metà ottobre saremo tra gli “i10”, sezione dedicata agli spazi indipendenti di ArtVerona, mentre a fine settembre organizzeremo House of Displacement, un festival che si articolerà in tre giorni e che si terrà in diversi luoghi di Torino. Performance, workshop, interventi artistici e teorici affronteranno il tema del displacement, inteso come condizione contemporanea condivisa.
Giulia Poppi, dal sintetico all’organico il tuo linguaggio si compone di varie suggestioni. In questa occasione presenti SplashSplapCiaff, come hai costruito la narrazione scenografica dei tuoi lavori e cosa ha ispirato questo processo?
Ho scelto questo titolo per sottolineare la forte componente materica del mio lavoro. L’onomatopea, rubata all’immaginario fumettistico, evoca un rapporto diretto con il materiale da me scelto, la gomma siliconica, perché è molle, sensuale e ambiguamente viscosa. L’intervento richiama anche nella dimensione spaziale una certa schiettezza che obbliga lo spettatore che si muove nello spazio a entrarvi in contatto. Muovendosi, l’opera produce un suono, lo SplashSplapCiaff del titolo appunto, suggerendo una geografia corporea erotica. A mio avviso un certo gusto per una sensualità sciolta e per la suggestione erotica appartiene anche agli altri interventi in mostra. La narrazione scenografica vuole fondersi con il format della mostra proposto, riportando la possibilità dell’innesto, dell’evoluzione, della trasformazione anche all’interno della singola giornata (la mostra è durata il tempo delle tre giornate di opening consecutive). Con il calare della luce naturale, prende il sopravvento quella artificiale dei neon colorati di rosa e inseriti nell’installazione. Alterando completamente la percezione dello spazio, la luce bagna e ammorbidisce anche le forme più fredde, quelle delle pietre. Mi piaceva l’idea di suggerire un percorso: nella roccia all’entrata troviamo dei buchi chiusi con delle colate di piombo, poi le pelli appese che ricordano una membrana organica, e infine una pietra bucata dalle forme più dolci, che lascia filtrare la luce rosa. Infine, l’inserto di gomma in angolo, che richiama a sua volta forme femminili, bloccato da una barra di ferro come quelle che sospendono le pelli. Mi interessava la suggestione che le cose più naturali sembrassero più fredde e finte di quelle veramente posticce, chiudendo ancora una volta il cerchio con quel mostro di Frankenstein che abbiamo voluto costruire.
Irene Adorni, Bachelard, Deleuze, Grosz sono alcuni dei riferimenti filosofici e letterali che emergono dal tuo lavoro. Con You have more microtubules than a paramecium in your brain esplori la tematica delle relazioni tra gli esseri umani. Qual è l’origine della restituzione materica e intellettuale di questo lavoro?
Il lavoro You have more microtubules than a paramecium in your brain si concentra sull’istante in cui due corpi si incontrano, indagando, in particolare, la transizione da una loro relazione potenziale alla relazione attuale. L’opera è composta da diverse narrazioni, tutte caratterizzate da un’energia latente, sempre in divenire, ma sospesa in uno stato entropico, restituito da una traccia audio che le accompagna in sottofondo. Le diverse storie narrate dalle voci fuori campo suggeriscono il passaggio da una o più (infinite) possibili relazioni inconsce a ciò che sarà effettivamente espresso attraverso il linguaggio corporeo e verbale.
Lo spazio tra i corpi diventa lo scenario del non-visibile, di ciò che è in-corporeo, ovvero ciò che eccede ed è allo stesso tempo incluso nel corpo; esso orienta e dirige i processi materiali, affinché occupino spazio e tempo e abbiano un significato e una direzione che va oltre alla loro materialità, come indica Grosz. L’attualizzazione della potenzialità si basa sul meccanismo di causa-effetto che, tuttavia, deriva da uno stato di sovrapposizione quantistica in cui la relazione causale è sostituita da una sincronica. Nel nostro cervello sono contenuti nei neuroni i microtubuli, micro organi in cui si potrebbero verificare fenomeni di coerenza quantistica simili a quelli osservati nei condensati di atomi. Secondo alcuni studi matematici e neuroscientifici, essi sarebbero centrali nel processo che porta all’emergere dell’atto di coscienza. Questo continuo e progressivo movimento da potenziale ad attuale, nella relazione come nell’atto di coscienza, passa dunque dal livello quantico, che fornisce al mondo della materia informazioni su come muoversi, a livello classico, che rappresenta la struttura delle forze che governano la materia stessa e i corpi.
Flavia Tritto, la tua ricerca ha inizio da esperienze personali e abbraccia in maniera multidisciplinare la filosofia e le scienze sociali. Phántasma è il titolo della tua performance che, originariamente, nasce da un’installazione di proiezioni video di un’altra tua mostra I am my body I am my memory, realizzata a Venezia. Come si formalizza questo lavoro nella performance torinese?
Sia Phántasma che In Superficie (titolo dell’opera in mostra a Venezia) sono variazioni formali di una ricerca che a livello materiale consiste principalmente nell’alterazione, attraverso metodi analogici, di immagini proiettate. Questi lavori hanno a che fare con idee di visibilità e percezione, e aveva senso per me svelare, a Torino, i meccanismi e i gesti che sono alla base delle installazioni video, e che normalmente restano nella dimensione solitaria dello studio. Ero, da un lato, desiderosa di condividere questo aspetto più privato della ricerca, e, dall’altro, curiosa di scoprire l’impatto che questo processo di svelamento avrebbe avuto sul lavoro stesso. Inoltre, ero interessata a sottoporre la stessa materia prima a condizioni radicalmente diverse (da video editato e completo a performance aperta e variabile; da installazione video liminale a tratti quasi impercettibile ad azione centrale di un opening) per vagliare le diverse declinazioni e interpretazioni che il lavoro potesse acquisire, e per utilizzare queste esperienze come fonte di possibili sviluppi.
‒ Giuseppe Amedeo Arnesano
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