Riconsegnare Palermo. Dai Cantieri al Garibaldi, aperture d’essai
Palermo si avvicina al voto. Si sceglie il sindaco, dopo dieci anni di tracollo, in mezzo a una campagna elettorale infuocata. Nel frattempo, la comunità della cultura porta avanti la sua lotta. Occupa, presidia, fa aprire spazi dimenticati. Adesso, sotto i riflettori, il Teatro Garibaldi e il Cinema dei Cantieri. Ma il rapporto con le istituzioni resta imprescindibile. Tra vecchi leader e nuovi candidati in corsa. Ne abbiamo parlato, in video, con due attivisti...
Palermo viva, come non mai. Inquieta, scalpitante, disobbediente, in stato di avanzata indignazione. Inversione di rotta: ora o mai più. Perché Palermo è anche stanca, svilita, avvilita, disarmata da un vuoto progressivo: politico, economico, sociale. E anche culturale, sì. L’antica agorà del Mediterraneo, città-giardino, città-piazza, città-porto, oggi è ridotta al lumicino. L’ombra grigia di sé si proietta su un presente in frantumi: è il tempo della confusione, del non sapere che fare, di una specie di silenzio post-atomico. Il nulla, dopo il saccheggio, tra cumuli di macerie di cui cominciare a prendersi cura. Volontari, attivisti, strateghi, semplicemente cittadini.
Questa è Palermo, oggi, alla fine di una lunga stagione politica: dieci anni di resistente malgoverno l’hanno rasa al suolo e sommersa di monnezza, letteralmente. Ma dopo il lungo scempio, forse, il risveglio. Appassionata alla vicenda delle imminenti amministrative, la città si dibatte tra il disincanto verso la politica e il bisogno di autodeterminazione. Il 6 maggio la corsa, in cerca dell’homo novus, in cerca di una chance.
Ma non è solo la politica a calamitare l’attenzione. Quella degli spazi culturali negati è una questione simbolica, misura di tutti gli abusi remoti e recenti. Non l’avremmo mai detto, in effetti. Non ci avremmo mai creduto a questo improvviso moto di protesta. Eppure, è successo.
Prima il movimento dei Cantieri Culturali alla Zisa, attivo da oltre un anno, riuscito tre mesi fa a “penetrare” la cittadella, avviando una trattativa con l’amministrazione e riattivando alcuni padiglioni con periodici palinsesti di incontri, assemblee, eventi. E adesso il Teatro Garibaldi, che venerdì 13 aprile, dopo anni di chiusura post-cantiere e di ingiustificata stasi, ha rivisto la luce: quella del sole, che adesso filtra dal portone finalmente spalancato, ma soprattutto quella delle coscienze, ormai vigili, e degli sguardi, commossi. Decine di occhi concentrati su una stessa direzione: esserci, fare, imporsi, lavorare. Cambiare lo stato delle cose.
Piccoli miracoli esplodono, quando la misura è colma, quando l’abbandono diventa norma, quando è l’ora di riprenderti ciò che ti spetta. Come hanno fatto quei settanta “garibaldini”, subito diventati centinaia. Quel mattino, nel mezzo di una primavera rovente, il loro teatro se lo sono preso, senza se e senza ma. Tenendo testa alla digos e alle pattuglie antisommossa, accettando di trattare con il commissario Maria Latella (al momento nessun sindaco al Comune, dopo la “fuga” di Cammarata) e pattuendo una permanenza di soli tre giorni. Entrano, esultano, si incontrano, si scontrano, si mettono a lavoro e da lì non se ne vanno più.
Scaduti i tre giorni, i teatranti-occupanti restano dentro. Il presidio va avanti, stavolta senza patti né ricatti. La Latella non gradisce e con i bad boys, dice, non vuole trattare più. Il patto è tradito, la fiducia è venuta meno. Sgombero? Non ancora, per fortuna. E il Garibaldi, intanto, rinasce: spettacoli ogni sera, concerti, Emma Dante tra i supporter eccellenti, e poi laboratori di teatro, tavoli tematici per strutturare cartellone e attività, assemblee e momenti di studio. Si torna alla vita, brutalmente, con un atto di forza che è, innanzitutto, simbolico: al vuoto politico, alla frattura tra società civile ed establishment, si risponde con una provocazione, con la violenza di una “presa”. Stavolta senza trattative, senza chiedere il permesso a nessuno. Perché lo strappo serve, in certi casi, a indicare la via con determinazione.
Il movimento I Cantieri che Vogliamo – vicino al Teatro Garibaldi Aperto, nonostante qualche tensione di sottofondo – ha invece optato per altri metodi. Di volta in volta adoperatisi per ottenere i permessi istituzionali, gli attivisti hanno accompagnato il pressing con una street guerrilla creativa, tra adesivi, slogan e piccole azioni urbane. “Apriamo”, il claim principale. E ci sono riusciti, in effetti, ad aprire. Dopo aver ottenuto la concessione saltuaria di alcuni padiglioni già in uso, eccoli arrivare all’ambito traguardo: la grande sala cinematografica d’essai, 500 posti e un mega schermo, perfettamente funzionante e mai utilizzata, è stata finalmente restituita alla collettività. Ieri, 24 aprile, le porte si sono dischiuse e una settimana di proiezioni prende il via, a partire da subito. Allo scadere dei sette giorni concordati con la Latella, cosa accadrà? Qualcuno punta, per esempio, all’apertura del Museo d’Arte Contemporanea, altra struttura della cittadella Cantieri, pronta ma scandalosamente serrata. Ma intanto il cinema – ribattezzato padiglione Vittorio De Seta, in onore del grande documentarista – c’è e ci sarà. Per un po’. A lasciarci immaginare come sarebbe, questa città, se tutto fosse normale.
Perché il problema non è aprire, né prendersi un posto. I garibaldini l’hanno più volte ribadito: “Non ci interessa questo teatro. Ci interessa IL teatro. Questo spazio non lo vogliamo per noi, vogliamo riconsegnarlo alla città”. Nomadi della protesta, apolidi, senza mire di potere. E senza politica alle spalle. Stessa storia per i combattenti della Zisa. Anche se, alla conferenza stampa d’apertura del cinema, c’erano più politici e politicanti che giornalisti. Pericolo strumentalizzazione sempre in vista. Nel clima bollente di questi mesi, ogni cosa sembra convergere verso il baccanale politico che mescola acque torbide e limpidi propositi. In una scomposta corsa verso il potere o la liberazione.
Ma a questi signori della politica, paladini – a destra e a sinistra – dei ribelli dell’arte, una cosa verrebbe da dire: va bene offrire supporto, ma non vi ci abituate. Il dopo elezioni sarà decisivo. La città, ormai in ginocchio, con le casse vuote, le ex municipalizzate in fallimento, un buco economico preoccupante, una macchina buroctatica opprimente, dovrà anche occuparsi di cultura. Dalla ristrutturazione degli spazi alla produzione di contenuti, passando per l’assegnazione di incarichi e l’individuazione di forme giuridiche idonee.
Che un cinema o un teatro autogestiti, per la gioia di pubblico e artisti, non diventino allora l’utile incidente con cui tappare una macroscopica falla istituzionale. Agli occupanti il compito, straordinario, di operare una rottura e svegliare i dormienti. Ma poi, tocca alla politica, di nuovo. Politica che ha il dovere di studiare metodi e opportunità, di gestire i fondi pubblici, di avviare partnership con i privati, non disperdendo le magre risorse e mettendole, anzi, a frutto. La strategia acchiappa-consensi di sostegno agli occupanti non può rischiare di tramutarsi nel tranello della deresponsabilizzazione amministrativa. La classe dirigente va interrogata e controllata, affinché lavori seriamente, in accordo – anche dopo le elezioni, anche dopo le occupazioni – con chi la cultura la fa e la vive ogni giorno.
Eccola, la sfida. Non solo aprire, non tanto l’autogestione come soluzione finale. Quanto provare a modificare un modus operandi, coinvolgere il cittadino disattento o demotivato, ma soprattutto il governatore distratto o ineducato. In altre parole, costruire responsabilità, condurre notabili e amministratori a quel rigore e quella lungimiranza che quasi ci sembrano un miraggio. Cambiare noi, per cambiare loro. Una rivoluzione culturale.
Sfida da perseguire a tutti i costi. Perché in fondo, che cos’è più illegale? Forzare la serratura di un luogo dimenticato, per seminarci dentro qualche grammo di bellezza, oppure privare una comunità di quel medesimo luogo, mortificandolo? Cos’è più condannabile? Un’occupazione di spazio pubblico a scopi creativi o una sottrazione di spazio pubblico per motivi clientelari e di potere? I disobbedienti del Garibaldi la risposta ce l’hanno. E con quella consapevolezza hanno tirato dritto per la propria strada, fieramente illegittima.
Molto c’è da fare, ancora. In chi occupa, che dovrà maturare contenuti, proposte, strumenti concreti e visioni nuove. E in chi si appresta a governare. Che si troverà in mano, a breve giro, una grande opportunità, ma anche un bel fardello. Il patto della politica con la società civile e la comunità dell’arte va rinnovato, daccapo. Che non sia un ricatto, stavolta, ma un foedus. Essere complici della protesta, per conquistare la fiducia di chi ormai ha deciso: vietato mollare la presa. Se un teatro è un “bene comune”, la resistenza è un “valore comune”. Oggi, più importante che mai.
Helga Marsala
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