Dialoghi di Estetica. Parola a Marcello Frixione
Intervista a Marcello Frixione, specializzato nella filosofia delle scienze cognitive e nel linguaggio poetico.
Marcello Frixione (1960) insegna Logica e Filosofia delle Scienze Cognitive presso l’Università di Genova. Tra gli altri, ha pubblicato i volumi Funzioni, macchine, algoritmi (con Dario Palladino, Carocci, 2004), Come ragioniamo (Laterza, 2007), Introduzione alle logiche modali (con Samuele Iaquinto e Massimiliano Vignolo, Laterza, 2016), Filosofia del linguaggio (con Massimiliano Vignolo, Le Monnier, 2018). Ha pubblicato inoltre le raccolte di poesia Diottrie (Manni, 1991), Ologrammi (Zona, 2001) e Pena Enlargement (d’If, 2010) e, insieme all’artista Mauro Panichella, il leporello Concologia per l’occhio e per la mente (Fiorina Edizioni, 2016). In questo dialogo ci siamo soffermati sul rapporto tra filosofia e poesia, considerandone alcuni aspetti in relazione alla ricerca contemporanea, alla produzione poetica e alla sua ricezione.
Guardandolo alla luce della sua storia, quello tra filosofia e poesia è un rapporto che potremmo considerare basato su un reciproco interesse.
Si tratta di una storia di vecchia data, i filosofi si sono interessati ai problemi della poesia già nell’antichità e hanno continuato a farlo anche in seguito, ancora in epoca moderna e nel pieno del Romanticismo. Nel Novecento i poeti si interessano a taluni riferimenti della cultura continentale novecentesca – dal pensiero di Walter Benjamin alla linguistica di de Saussure al marxismo –, e i filosofi esplorano le possibilità del linguaggio sia analizzandole sia, in taluni casi, provando anche a sperimentare direttamente nella loro scrittura filosofica, come accade con taluni autori della cultura francese contemporanea.
E la fase più recente?
È caratterizzata, tra le altre cose, da un interesse coltivato in particolare nell’ambito della filosofia del linguaggio. In proposito è però importante fare alcune precisazioni. La crescente diffusione di ricerche filosofiche sulla letteratura di orientamento analitico è rivolta soprattutto alla narrativa, meno alla poesia. Tuttavia, negli ultimi anni si sta assistendo all’inizio di una inversione di rotta: un esempio è il volume The Philosophy of Poetry, curato da John Gibson e pubblicato da Oxford University Press nel 2015.
Consideriamo un momento il versante della ricerca di orientamento analitico.
Vi sono determinati oggetti, le poesie, che possono essere analizzati da punti di vista diversi. Un modo non esclude l’altro. Si tratta di un arricchimento delle possibilità di indagine. Credo infatti che ci sia un’ampia classe di strumenti offerti dalla tradizione analitica che può essere molto utile per individuare le specificità della poesia – principalmente perché permettono di leggere meglio i testi e avere altre possibilità per affrontarli e investigarli.
Se dovessimo indicare alcune delle principali direzioni di ricerca della filosofia della poesia in ambito analitico, quali potremmo menzionare?
Insieme a riflessioni sul posto della poesia nell’estetica contemporanea, a questioni come l’opacità semantica e il rapporto con la verità, vi sono anche altri temi. Per esempio, si lavora molto sulle possibilità delle parafrasi per comprendere come la poesia sembri riuscire a mettere in crisi, almeno prima facie, certi assunti fondamentali della filosofia del linguaggio: l’idea che un testo linguistico non sia parafrasabile è una sorta di eresia per un filosofo analitico.
Come viene affrontato il problema in filosofia?
Una proposta che credo sia davvero convincente in merito è quella avanzata da Ernest Lepore, ossia l’idea che la poesia funzioni in parte come un meccanismo di citazione: quando si scrive un testo poetico è come se quel testo lo si mettesse sempre tra virgolette.
La riflessione sul linguaggio della poesia che stai sviluppando trae origine in particolare dalle ricerche condotte dal filosofo britannico Paul Grice nell’ambito di quella che viene chiamata pragmatica del linguaggio, ossia lo studio dei suoi usi, del rapporto con i contesti di condivisione linguistica e delle ambiguità che li caratterizzano. Qual è l’idea guida della tua ricerca?
Un primo aspetto importante da precisare è che non intendo offrire una definizione di poesia. Non sostengo che i meccanismi pragmatici siano ciò che caratterizza il linguaggio della poesia al punto da permettere di definirlo. Piuttosto, l’idea è che il linguaggio della poesia sia caratterizzato da tutta una serie di fattori, e che tra questi vi siano anche i meccanismi pragmatici, ma evidentemente questi non sono gli unici. Vi sono testi poetici nei quali questi aspetti sono meno presenti; altri in cui sono più evidenti. Non sono interessato a sostenere che questi siano l’essenza della poesia.
Non sei mosso da un’intenzione definitoria, il tuo non è un approccio essenzialista.
Esatto. Credo infatti che anche per la poesia valga l’approccio generale che ritengo proficuo per la questione dell’arte: possiamo riconoscere una serie di somiglianze di famiglia, ma non possiamo definirne il concetto.
Il lavoro di Grice nei suoi studi su logica e conversazione è incentrato sul significato, dalla parte del parlante e da quella dei veicoli semantici, ossia della sua trasmissione mediante il linguaggio. Nel quadro di queste ricerche a essere decisiva è stata la nozione di ‘implicatura’. Che possibilità offre la ripresa degli studi griceani nella filosofia della poesia?
Innanzitutto, è importante chiarire la nozione che hai opportunamente menzionato: in estrema sintesi, abbiamo una implicatura tutte le volte che lasciamo intendere deliberatamente qualche cosa che non diciamo in maniera esplicita. Secondo Grice una importante classe di implicature viene generata violando in maniera deliberata le aspettative del parlante. Per esempio, le metafore e altre figure retoriche come la metonimia vengono generate dicendo esplicitamente qualche cosa di falso, e che l’interlocutore sa essere falso. Normalmente ci si aspetta che, in una conversazione, chi parla dica il vero; nel momento in cui l’interlocutore dice qualcosa di esplicitamente falso, l’ascoltatore cerca di dargli un senso presupponendo che comunque chi ha di fronte voglia collaborare all’interazione linguistica. Se io dico, per esempio, che ‘Mario è un dinosauro’, un interlocutore sa benissimo alla lettera che Mario non è un dinosauro. Egli cerca però di dare un senso all’enunciato interpretandolo come se io volessi dire che Mario è lento, è una persona antiquata e così via.
Quale prerogativa ha una indagine sulla poesia sviluppata a partire da questi presupposti?
Credo che uno dei vantaggi di interpretare in termini pragmatici certi meccanismi dei testi poetici sia di vederli in continuità con quelli che sono già all’opera nel linguaggio ordinario: nei primi non succede niente di diverso o di qualitativamente eccezionale rispetto al secondo.
Proviamo a entrare nel merito del linguaggio della poesia: qual è la tua tesi in proposito?
D’accordo con quanto abbiamo detto, la mia tesi è che la poesia può essere considerata come uno dei possibili usi del linguaggio ordinario, nel quale certi meccanismi che sono all’opera in quest’ultimo possono essere accentuati. Vi sono certamente delle differenze, ad esempio per quanto riguarda proprio la nozione di ‘implicatura’ – che metto di proposito tra virgolette. Normalmente si assume che una implicatura abbia un contenuto proposizionale abbastanza preciso: se io – in un contesto conversazionale standard – dico che ‘Mario è un dinosauro’, intendo dire che è una persona lenta e antiquata; nel caso del linguaggio della poesia, benché si operino violazioni di questo tipo delle attese del parlante, c’è comunque un intento comunicativo che però non è così preciso. Spesso non si riesce a identificare un contenuto proposizionale specifico che chi scrive il testo poetico vuole comunicare a chi lo legge o lo ascolta.
Il linguaggio nella poesia si caratterizza tanto per questa ambiguità quanto per la sua libertà espressiva.
Sì, e questo a mio avviso dipende da due aspetti in particolare. Da una parte, è vero che nella poesia il linguaggio ha un ruolo assolutamente primario. D’altra parte, in essa entrano in gioco anche dinamiche che non sono esclusivamente linguistiche. Molti di quegli aspetti pragmatici – penso per esempio alla generazione di pseudo-implicature come quelle che abbiamo menzionato – non sono assolutamente specifici del linguaggio, ma riguardano anche altre forme di comunicazione. Ci sono poi testi poetici nei quali il linguaggio è disgregato e trasposto attraverso soluzioni visive di vario tipo – pensiamo ai calligrammi, alla poesia visiva ecc.
Tu lavori sulla poesia e con la poesia: oltre alle tue ricerche negli ambiti della logica, della filosofia delle scienze cognitive e del linguaggio, sei anche un poeta. Che rapporto c’è tra queste due sfere della tua attività?
Tempo fa ti avrei detto che tra la mia attività teoretica di filosofo e quella poetica non ci fosse nessun contatto, salvo che accidentalmente ero io la stessa persona che faceva entrambe le cose. Ora sono più favorevole a considerare un legame tra le due sfere. Comunque, la mia è sempre stata una poesia fortemente cerebrale e iperletteraria, che presuppone molteplici riferimenti teorici e testuali. Per di più, sono convinto che la poesia possa avere un valore conoscitivo e una potenzialità espressiva che in altri ambiti non sarebbero possibili.
Considerandola in rapporto alle altre arti, coltivo l’idea che anche nella poesia si tratti di procedere secondo regole per svolgere una attività, e che questo non voglia dire regolare il lavoro, ma organizzarlo in modo da seguire un certo programma operativo. Che cosa ne pensi?
Sono d’accordo. Soprattutto perché spesso si procede disattendendo proprio le regole che si sono poste alla base del proprio lavoro. E questo non vuol dire necessariamente mandare tutto all’aria, ma seguire piuttosto una organizzazione diversa.
Torniamo a Grice. Nelle sue ricerche egli presenta alcune massime utili a classificare gli usi del linguaggio in rapporto ai seguenti parametri: quantità, qualità, relazione, modo. Mantenendo come riferimenti queste massime, pensi che sia possibile sviluppare una classificazione delle poesie in rapporto ai diversi usi del linguaggio?
Credo si possa anche lavorare in questa direzione, ma senza prendere troppo sul serio una possibilità del genere. Sicuramente i testi poetici possono essere classificati (anche) sulla base di quali massime vengono violate. La violazione della stessa massima, tuttavia, può essere dovuta a motivazioni profondamente diverse. Per esempio, la massima del modo richiede di essere perspicui, ossia di essere chiari, di esprimersi in modo comprensibile. Sicuramente ci sono numerosi testi poetici che comunicano qualcosa violando questa massima, ma essi possono essere molto diversi tra di loro – pensa, per esempio, a una poesia di Stéphane Mallarmé e a una di Nanni Balestrini: entrambi commettono violazioni della massima del modo, però vogliono fare cose profondamente diverse. Ci vuole una certa cautela; è importante tenere presente che, in questo ambito, ogni classificazione non può che essere parziale.
Insieme all’indagine sulla pragmatica del linguaggio, diventa allora altrettanto importante tenere in considerazione qualcosa che potremmo chiamare ‘necessità poetica’.
Certo, e per coglierla l’indagine sul testo è prioritaria. Posto che vi sono comunque dei vincoli che provengono direttamente da esso. Questo, se vuoi, ha anche a che fare con un ulteriore problema che una filosofia della poesia non può trascurare, ossia il problema aperto della relazione tra pragmatica e semantica, il rapporto tra uso e significato sul quale si continua a discutere in filosofia del linguaggio.
La poesia è un uso possibile del linguaggio ordinario. Tuttavia, in alcuni casi, il linguaggio della poesia sembra anche poter essere ancora più trasparente del linguaggio ordinario. Che cosa ne pensi?
Una caratteristica dell’uso del linguaggio nella poesia rispetto a quello ordinario consiste anche nel fatto che in qualche modo, quando si fruisce di un testo poetico, non si è interessati solo a quel che dice il testo, ma anche al testo stesso. Quella trasparenza di cui parli appartiene al testo ma – come avviene con alcune opere di arte concettuale – essa è considerata alla luce di quelli che un tempo erano detti significato e significante. Se per esempio una poesia si basasse sull’uso di istruzioni per la lavatrice, sarebbe un po’ come se queste fossero messe tra virgolette: non bastano la sintassi o la semantica del testo, ma occorre considerare il suo uso.
Se volessimo individuare un parametro utile per stabilire la qualità di un testo poetico, quale potremmo indicare?
Se è vero che una analisi filosofica sul linguaggio nella poesia non possa esaurire il suo oggetto di indagine, pur offrendoci comunque importanti strumenti e informazioni per ampliare le nostre conoscenze su di esso, è altrettanto vero che sia qualcosa come una versione rinnovata del test del tempo a determinare se un testo poetico sia di qualità o no.
Di che cosa si tratta?
Credo che non sia semplicemente il fatto che un’opera d’arte – e tra queste includerei anche le poesie – tra venti o trent’anni ci dica ancora qualcosa. Il vero elemento cruciale è piuttosto che tra venti o trent’anni un’opera possa dirci ancora qualcosa di nuovo che prima non ci diceva.
‒ Davide Dal Sasso
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati