Epifania del passato con Merce Cunningham. A Bolzano
Il festival Bolzano Danza ha ospitato, in chiusura del suo calendario, il Centre National de Danse Contemporaine d’Angers, diretto da Robert Swinston, in un imperdibile doppio programma dal repertorio di Merce Cunningham. Nel centenario della nascita.
È stata una vera meraviglia. Oltre che una grande sorpresa. Ritrovare intatti lavori che credevamo di non poter vedere più dal vivo. E ritrovarli incolumi, in tutta la loro complessità formale e difficoltà interpretativa. E poterli ancora osservare e studiare, e fermarli nella memoria come testi fondativi di un sapere contemporaneo che accade direttamente nei corpi danzanti. Perché qui, quel che più conta non è la restaurazione di un passato che comunque sembra essere ancora in corso, ma l’epifania di una esperienza che si rigenera nei corpi dei nuovi interpreti. In attesa dell’omaggio di Richard Siegal con il suo Ballet Difference per i cento anni dalla nascita di Merce Cunningham, atteso a MilanOltre questo autunno, Bolzano Danza ha chiuso il suo calendario ospitando il Centre National de Danse Contemporaine d’Angers, diretto da Robert Swinston, già mirabile interprete poi fedele assistente del grande coreografo statunitense. Perché Cunningham appare così attuale, ancora in anticipo sui tempi? Forse perché le sue creazioni sono generate tanto dalla vita biologica degli interpreti quanto dalla vita inorganica delle forme cui essi danno vita. Non vi è più alcuna distinzione tra vocabolario e natura, nei suoi lavori, perché perfettamente in grado di abbattere le barriere tra mondo fisico, biologico e culturale.
SPAZIO RISTRETTO
A Bolzano, la serata si è aperta allo spazio Studio con la coreografia dell’altoatesina Sabrina Fraternali, interpretata da Flora Orciari: gran parte dell’assolo (Glauco) è eseguito al centro, sur place, in uno spazio ristretto e in stretta consonanza con un percussionista vocalizzante. Col corpo la danzatrice mostra quanti confini e limiti (visivi e sonori) si possono aprire, quanto spazio è possibile mettere in movimento stando quasi fermi, e quanto suono del corpo è realizzabile con il solo contrappunto del ritmo. Tanta bravura avrebbe però meritato una maggiore radicalità: quando infatti il movimento della performer guadagna spazio, l’idea si dissolve. E il desiderio della prestazione prende il sopravvento sulla forza del progetto.
FORMA E PENSIERO
Merce Cunningham avrebbe oggi cent’anni. Molti per chiunque, ma non per lui, che aveva stampato sul volto l’invariabile e imperturbabile sorriso dell’imperituro. Sempre sereno, ma non per questo senza nuvole. Le certezze della forma trattengono e arginano, a volte, le derive del pensiero. Robert Swinston ha ricreato due lavori abbastanza noti e conosciuti, ma di grande ricchezza compositiva e di forte complessità esecutiva.
Beach Birds (1991), con musica di John Cage, propone un motivo ricorrente nella poetica di Cunningham: la presenza tipologica degli animali. In questa giustapposizione nei corpi di forme dinamiche e anatomiche di grazia ornitologica, finanche nei costumi di Marsha Skinner, che prolungano alle mani l’effetto d’ali, prende vita un gioco continuo di mutazione dello sguardo. Non si tratta solo di linee in prospettiva, ma anche di forme del pensiero capaci di riformulare la vita biologica a partire dalla materia inorganica delle forme.
La partitura di movimento è piena di stasi e di rallentamenti, ma sempre in grande tensione e dispendio: gli errori e le esitazioni non mancano, ma sembrano come l’esito più umano di queste strategie di intensificazioni della dinamica. Uno dei momenti più forti è quello di un volo, pronunciato a proscenio con un ostinato port de bras fluido e lentissimo, in un difficile equilibrio per l’illusione di una corsa aerea, che sembra nuovamente interrogare, nel tempo fermo della sua esecuzione, il destino in corso di questa trasformazione. Ed ecco che il divenire-uccello di questo danzatore sembra chiederci immediatamente conto della natura più o meno ecologica del nostro sguardo. La logica che si manifesta in questo divenire nel corpo del danzatore non ha più nulla a che fare con qualsiasi residua distinzione tra natura e cultura.
Invece in BIPED (1999), con musica di Gavin Bryars, Cunningham lavora con la tecnologia motion capture e realizza con due danzatori 70 frasi di movimento, trasposte poi in immagini digitali da Paul Kaiser e Shelley Eshkar. Questo pionieristico lavoro sul rapporto tra reale e virtuale oggi sembra valorizzare soprattutto, invece, il rapporto mai neutrale tra presenza e assenza. Gli ingressi continui, anche dal buio del fondo, e le sparizioni incessanti sulle proiezioni digitali più in primo piano, a proscenio, ci svelano tutta la malinconia, ma viva e attiva, di questo ciclo virtuale e baluginante di forme e di corpi.
OLTRE LE DEFINIZIONI
Una vera e propria epifania del passato, certo, ma la coreografia, cioè l’organizzazione del movimento, è superiore e resiste, ritorna intatta e anzi vi si ritrova praticamente già tutto anticipato e impostato, o quasi, quello che è successo nei dieci anni successivi alla morte di Cunningham, dall’ingegnoso ritorno al movimento di Forsythe alla matematica genetica di McGregor. Perché la vitalità di questo repertorio è già oltre le dicotomie classiche su cui la definizione di “lavoro coreografico” si fonda: materiale e immateriale, creazione e produzione. Questo ritorno a Bolzano di due lavori di Merce Cunningham, dieci anni dopo la sua morte con la dismissione della compagnia per sua espressa volontà, dunque ci insegna quanto inutili siano le definizioni da manuale, quanto potenzialmente dannose le sistemazioni storiografiche quando brandite per spartire e contendere, e quanto pericolosi siano i discorsi inesperti, solo compensativi di ego sofferenti perché incompetenti. Cunningham ci insegna, soprattutto oggi, il pudore e il silenzio che sono necessarî a ogni gesto, a ogni passo, o a ogni presa di parola.
‒ Stefano Tomassini
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