Intervista con il grafico. Parola a Jonathan Pierini
Nuovo focus sui protagonisti della grafica italiana. Stavolta tocca a Jonathan Pierini, impegnato nell’ambito della progettazione grafica e della tipografia.
Dopo il diploma presso ISIA Urbino in Progettazione Grafica e Comunicazione visiva, Jonathan Pierini (Urbino, 1983) frequenta il master Type and Media presso la Royal Academy of Arts dell’Aja. Nel 2009 insegna progettazione grafica presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna e svolge l’attività di tutor in type design presso ISIA Urbino. Nello stesso anno collabora con l’Università per Stranieri di Perugia con un progetto di ricerca sulla retorica della cartografia web. Nel 2010/2011 si trasferisce a Londra, dove lavora per lo studio Dalton Maag alla progettazione di caratteri tipografici per clienti quali Nokia e Vodafone. Dal 2011 al 2017 ha lavorato presso la Libera Università di Bolzano come ricercatore e professore aggregato in progettazione grafica. Da settembre 2017 è direttore di ISIA Urbino, dove insegna tipografia e tecniche di produzione grafica. Dal 2014 fa parte della redazione di Progetto Grafico, di cui è direttore dal 2018.
Da qualche anno stai ricoprendo un ruolo importante come direttore della rivista Progetto grafico. Come affronti questo tipo di incarico? Perché hai scelto di lavorare su numeri tematici come quello sul corpo o sul lavoro nell’era digitale e del multitasking?
Partecipo al comitato editoriale della rivista dal 2014. In questo periodo ho curato il numero 31, corpo e progetto, insieme a Claude Marzotto e Silvia Sfligiotti, quando la rivista era diretta da Silvia con Davide Fornari. Il focus tematico è forte e c’è una trattazione articolata strettamente intorno al tema. Ad esempio, parlando proprio del numero 31, si è deciso di sviscerare il rapporto fra tematiche del corpo e progettazione suddividendo l’analisi in tre macro-aree che riguardassero la rappresentazione del corpo nei processi comunicativi con finalità diverse: dal controllo alla pubblicità, dalla propaganda all’esplorazione dei linguaggi artistici, dall’attenzione alla produzione e al processo come progetto.
E in veste di direttore?
Quando ho assunto la direzione, insieme a Gianluca Camillini, ci siamo subito posti numerosi interrogativi. Innanzitutto, abbiamo cercato una soluzione ibrida che mediasse l’approccio tematico con la presenza di alcune tipologie di contenuti ricorrenti, quasi delle rubriche. Alla base del nuovo progetto c’è l’idea di una narrazione che non sia più lineare ed esaustiva rispetto alla tematica trattata, ma che proceda per accostamenti più liberi e frammentati. Cerchiamo di variare le tipologie di contributi, includendo saggi, ma anche articoli di commento, passiamo da una visione macroscopica a una micro. Inoltre diamo anche più spazio al visivo prevedendo sempre una segnatura d’archivio (materiale che reperiamo da archivi pubblici, privati o collezioni) e che costituisce l’apertura del numero. C’è anche un ottavino dedicato a progettisti emergenti, siano essi grafici, fotografi, illustratori. Questo è anche un modo per ampliare l’audience della rivista a tutti coloro che sono attori o interessati alle questioni visive e alla loro rilevanza politica. L’aspetto politico è centrale nel nostro programma ed emerge anche dalle scelte tematiche. Dopo i numeri 33 e 34 che parlano rispettivamente di lavoro e divertimento, stiamo ora pubblicando la call per 35 e 36 che indagheranno, sempre in modo antitetico, il tema del sacro e del profano. Ci interessa in particolare approcciare le mitologie e le ideologie del design in modo critico con l’obiettivo di “laicizzare” lo sguardo, interrogarci su cosa significhi oggi la sacralità, esplorare tutto ciò che in qualche modo crea un elemento di attrito e di contrasto sotto la superficie liscia del progetto.
Come influisce la scelta dei contenuti, il fatto che siano per una rivista che riguarda la progettazione grafica?
È una questione interessante su cui riflettere perché da un lato c’è la volontà di rendere rilevante la rivista per l’ambito più ampio dei visual studies, uscendo dalla nicchia del graphic design e perseguendo una logica trans-disciplinare. Dall’altro, resta la necessità di non perdere la specificità storica della rivista. Una necessità rafforzata dal fatto che Progetto grafico è pubblicata da AIAP, l’associazione italiana design per la comunicazione visiva e che è l’unica rivista di grafica in Italia. A nostro avviso, la soluzione sta nel prestare particolare attenzione a come le tematiche vengono “tradotte” e “discorsivizzate”. La convinzione è che l’osservazione delle manifestazioni visive, che si tratti di artefatti o di rappresentazioni delle cose, così come la produzione grafico-visiva, possano dare un contributo al dibattito culturale contemporaneo. Per cui, se riusciamo a far capire la rilevanza e l’impatto delle questioni visive sul mondo politico, economico, sociale, l’interesse diventerà generale. La chimica delle particelle non interessa a molti, ma il nucleare è un problema di massa.
Quale è oggi il ruolo del graphic design in un momento in cui il pubblico è produttore di informazioni e non solo un semplice consumatore?
I ruoli sono molteplici, anche perché l’ambito d’azione del graphic design è molto ampio. Ci sono settori che richiedono una preparazione tecnica tale da non essere ancora alla portata dal grande pubblico e molti rapporti di forza restano invariati nonostante l’allargarsi delle competenze. Penso sempre che si tratti di processi di ri-mediazione più che di sostituzione. Basti pensare a come il do it yourself abbia aperto nuovi ambiti d’interesse e commerciali favorendo la comparsa di nuovi attori, ma non abbia soppiantato processi top-down tradizionali o come la progettazione partecipata odierna non abbia provocato la scomparsa tout court di modelli progettista-cliente classici. A fianco di ruoli tradizionali ne emergono sicuramente di nuovi.
Ad esempio?
A mio avviso alcuni tra i più interessanti riguardano le possibilità didattiche dei processi di progettazione, che possono diventare strumenti aperti per le comunità. Come giustamente dici, il pubblico oggi non è più solo fruitore. D’altra parte, non è sempre lo sperato co-autore annunciato da Umberto Eco tempo fa. Temo che molto più spesso, come dice Boris Groys, si tratti di una produzione per condivisione che alimenta un monologo esposto piuttosto che produrre una dimensione pubblica. Forse è proprio questo un ruolo del graphic design, se lo intendiamo non tanto come lo strumento di promozione di beni e servizi che si è sviluppato a partire dal secolo scorso, ma come scrittura pubblica con radici molto più antiche.
Come afferma il critico Simon Garfield nel libro Sei proprio il mio tipo, sembra che le persone oggi siano più attente al mondo della tipografia. Tu hai lavorato su molti progetti legati alla tipografia. Penso al progetto del 2014 realizzato con Riccardo Olocco dal titolo Parmigianino Typographic System, con cui realizzi una famiglia di caratteri ispirati al mitico Bodoni. In questo caso rendete disponibili i caratteri nel mondo del web. Mentre in altri casi non si tratta solo di una riflessione sulla tipografia al tempo del digitale, bensì di rispondere a una committenza ben precisa come quella della Fondazione MAST di Bologna per cui, assieme a Leonardo Sonnoli, hai progettato la font per la comunicazione. Puoi parlarmi di come affronti questi compiti?
La mia passione per il disegno di caratteri deriva dalla constatazione che le lettere sono un elemento minimo della scrittura, il cui effetto viene ampliato in modo esponenziale attraverso la ripetizione. Disegnare caratteri significa indagare la diversità fra la scrittura e il linguaggio parlato. In qualche modo è quindi la ricerca continua della validità del fatto tipo-grafico, della sua autonomia e del contributo che esso può portare alla cultura. Ogni carattere, con le proprie specifiche, contribuisce a questa ricerca. I progetti su commissione, per quanto mi riguarda, nascono sempre dall’incontro di questa linea di ricerca personale con una richiesta che impone necessità tecniche e suggerisce aspetti stilistici. Per capire un progetto tipografico è molto importante non fidarsi dei claim dei progettisti che declamano, solitamente, contemporaneità e leggibilità. È molto più utile conoscere i fatti che possono aver influito su determinate scelte. Riguardo al progetto per il MAST di Bologna, è nato innanzitutto dall’incontro con Leonardo, che è stato mio docente e con cui ora collaboro in ISIA, che mi ha chiesto di sviluppare il carattere assieme a partire da alcune varianti di display che aveva già disegnato. Insieme abbiamo identificato il Parmigiano Sans, allora in gestazione, come un carattere adatto al progetto, capace di esprimere il sentimento industriale ricercato. L’alto contrasto lo rendeva però eccessivamente disegnato e con rimandi troppo diretti al periodo storico di riferimento. Si è deciso perciò di disegnarne una versione a basso contrasto, più solida e di dotarla di una variante inclinata in modo quasi automatico piuttosto che corsiva, come tipico per i caratteri razionalisti. Sullo scheletro di queste maiuscole sono poi state disegnate le varianti stilistiche che identificassero ogni ambiente e le diverse funzioni del centro. Queste sono state ottenute in modi e secondo retoriche differenti, come il riverbero dei contorni nella versione “auditorium”, le lettere maiuscole-minuscole e rovesciate per quella dedicata all’asilo nido ecc.
Il tuo progetto di una font o della grafica in generale nasce dalla gabbia o dalla sua assenza?
È una grande discussione della grafica del Novecento che in parte anche oggi mantiene la sua validità, nonostante molti processi produttivi siano ormai cambiati. Mi ricorda il famoso dibattito del 1972 tra i grafici olandesi Wim Crowel, sostenitore dell’oggettività e della perizia tecnica del progetto grafico, e Jan Van Toorn, che proclamava invece la legittimità di un approccio personale, soggettivo e impegnato facendolo coincidere con l’uso del collage, del caos nella composizione. Sicuramente le scelte grafiche sono legate a immaginari che inevitabilmente ne condizionano il messaggio, ma forse è il momento di superare una contrapposizione che si fonda su una corrispondenza forma-contenuto ideologica e monolitica. Riconosco l’utilità della griglia nell’organizzare la complessità, ma non è una scusa per non credere ai nostri occhi e per smettere di addestrarli a vedere e a prendere decisioni.
Dal 2010 al 2011 lavori per Dalton Maag Ltd a Londra, in cui sei coinvolto in progetti per clienti come Nokia e Vodafone. Come hai svolto quegli incarichi? Di cosa si trattava?
Dalton Maag è uno dei maggiori studi di type design che progetta caratteri personalizzati per aziende e multinazionali, specializzato nel disegno di famiglie di caratteri multiscript che possono supportare un grande numero di lingue. Io sono stato coinvolto nel team dedicato alla progettazione del carattere nella fase iniziale, quindi nel disegno delle varianti light, regular e bold, e successivamente nel disegno di greco e cirillico. Progetti così complessi prevedono il lavoro in team numerosi e ben strutturati dove ognuno adempie a mansioni specifiche. Ad esempio, io mi occupavo del disegno, ma non dell’ingegnerizzazione delle font o di altri aspetti tecnici, mentre quando si lavora in autonomia si seguono spesso tutte le fasi di produzione. Le motivazioni che spingono grandi aziende a commissionare nuovi caratteri sono molte e includono, oltre a questioni di branding e identitarie, anche considerazioni di carattere economico. Può essere molto più conveniente commissionare un nuovo carattere che pagare mille licenze per l’utilizzo di font già esistenti. Nel caso di Nokia, il progetto nasceva dalla volontà di ripensare la comunicazione dell’azienda e dalla necessità di un carattere che rispondesse a numerose esigenze tecniche, multilingue, adatto a device diversi ecc.
Puoi spiegare meglio cosa intendi quando indichi che i tuoi progetti di ricerca si concentrano sulla relazione tra comunicazione scritta e spazi abitati? Puoi portarmi degli esempi e modalità di lavoro?
Come dicevo, intendo il progetto grafico come una scrittura pubblica, quindi come uno strumento che si relaziona con luoghi e persone, una sorta di attore non umano. In particolare mi interessa il rapporto tra lo spazio testuale e lo spazio fisico e la possibilità di creare relazioni tra questi due luoghi. Da alcuni anni cerco di indagare queste possibilità del progetto di pubblicazione con gli studenti dell’ISIA di Urbino passando dalla mise en page alla mise en scène. Pubblicare non viene più inteso come un processo che si conclude con la produzione di un output quanto come un processo pubblico che produce uno spazio per il confronto e la negoziazione. Ogni fase della vita di un testo, dall’ideazione alla creazione dei contenuti, dall’impaginazione alla distribuzione, può essere considerata oggetto di progettazione già di per sé.
Nei manuali di storia della grafica si tende sempre a individuare nella grafica la separazione tra la grafica creativa (Armando Testa) e quella di pubblica utilità (Albe Steiner). Cosa c’è di vero nel dividere la storia della grafica italiana in questi due interessi? Come tentare di individuare oggi riflessioni e necessità in un mondo della grafica post-Internet?
Sicuramente c’è una lettura a posteriori che non facilita la comprensione delle esperienze storiche. Ne parlo in Progetto grafico #33 proprio a proposito della grafica di pubblica utilità in Italia, sottolineando come in alcuni casi una ideologizzazione del fenomeno, e dei suoi valori sociali, non abbia permesso una piena valorizzazione dei contributi individuali o l’individuazione di questioni economiche. D’altra parte, queste distinzioni sono state fatte anche dagli stessi protagonisti. Albe Steiner scriveva in merito alla differenza tra grafica per la promozione delle merci e propaganda di utilità pubblica. Personalmente penso che grafica creativa e di pubblica utilità non si possano distinguere solo sulla base dell’oggetto di interesse. Tanto più che, a partire dagli Anni Ottanta, la separazione tra privato e pubblico non sembra più così netta. Le differenze maggiori riguardano le strutture coinvolte e le competenze: piccoli e medi studi piuttosto che agenzie, progettisti grafici anziché team multidisciplinari con figure legate al marketing. Sulla rilevanza del concetto di grafica di utilità pubblica o sociale oggi mi sono interrogato spesso. Non credo che un impegno in questo senso sia impossibile, ma non è più una questione di tematiche quanto di modalità.
Progetti in corso e in via di sviluppo?
In ISIA, come direttore, sto lavorando a diversi progetti che comunichiamo attraverso i social media. Stiamo implementando un nuovo sito web per il quale abbiamo indetto un concorso internazionale su invito cui hanno partecipato Mevis e Van Deursen, Norm e Zerodotzero; stiamo progettando una serie di pubblicazioni che valorizzino il lavoro degli studenti e dei docenti nei diversi ambiti di interesse: grafica, illustrazione e fotografia. Questo va in parallelo con un continuo lavoro di ottimizzazione dell’offerta didattica. Ad esempio, da quest’anno il corso specialistico in fotografia propone molte novità insieme a nuovi docenti tra cui Armin Linke, Giovanna Silva, Stefano Graziani, Carlos Bayod di Factum Arte, Spector Books. Come progettista, sto lavorando alla progettazione di un’installazione di 120 metri per sette di altezza per il gruppo IMAB che ne celebra i cinquant’anni di attività attraverso un racconto fatto di forme sintetiche che parlano dell’evoluzione dei processi produttivi nell’industria del mobile. Per quanto riguarda la ricerca, mi sto dedicando allo studio in parallelo di due storie del progetto che presentano punti di contatto e differenze, sullo sfondo dell’Italia del secondo dopoguerra: il lavoro di Steiner per De Carlo, con particolare riferimento al progetto per il piano regolatore di Urbino del 1965, e quello di Dolcini per il Laboratorio Urbanistico Comunale di Pesaro per il Piano Regolatore di Aymonino del 1974. Tutt’altro tipo di ricerca è Che farò senza Euridice?, un progetto di scrittura che utilizza tende componibili di piastrine in PVC, semplici griglie di modulo 1:2, come spazio/limite discorsivo.
‒ Lorenzo Bruni
Versione integrale dell’articolo pubblicato su Artribune Magazine #50
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