I would prefer not to. L’editoriale di Fabio Severino
Mentre le sorti del governo italiano sono ancora nebulose, Fabio Severino riflette sulle competenze (non) richieste a chi tiene le redini delle imprese culturali. Sottolineando come, al pari di quanto avviene in politica, spesso chiunque possa improvvisarsi nel ruolo.
Siamo un Paese di poeti. Il che è bello. Peccato che a essi non sia lasciato solo narrare, ma si assegnino loro incarichi impropri. I poeti in Italia fanno i manager culturali, gli amministratori di grandi imprese. Storici dell’arte, pittori, paesaggisti, giornalisti, scrittori sono chiamati dalla politica con responsabilità di governo a gestire organizzazioni di servizi. Aziende con centinaia di dipendenti, ricavi a dieci zeri. Li si chiama a valutare e acquistare forniture complesse, la cui eventuale scarsezza nella qualità può ledere il patrimonio storico, può danneggiare il cittadino, può condizionare la collettività, o la cui poca sapienza nella scelta può ledere la concorrenza, ovvero posti di lavoro, economie locali ecc. ecc. Insomma: danni veri. Servono non solo talenti per farlo, ma innanzitutto competenze specifiche.
“Perché gestire decine e decine di milioni e centinaia di persone può essere per autodidatti e operare un essere umano, affrontare una causa in tribunale o progettare un ponte no?”
Chi si farebbe operare da un architetto? Chi si farebbe costruire la casa da un biologo? Chi si farebbe difendere in tribunale da un dentista? Perché invece presidenti e amministratori di imprese culturali (teatri, musei, festival, fondazioni) possono essere persone che non sanno nulla di finanza, controllo di gestione, contabilità, contrattualistica, risorse umane? Perché avvocati, medici, architetti non ci si improvvisa, mentre amministratori sì? Perché gestire decine e decine di milioni e centinaia di persone può essere per autodidatti e operare un essere umano, affrontare una causa in tribunale o progettare un ponte no?
Forse perché ai primi non si chiedono risultati ma prestazioni (ovvero “prova a farlo”), dai secondi si pretende invece che la persona guarisca, che la causa si vinca e che il ponte non crolli. Che la politica, per le sue convenienze clientelari, abbia già da un po’ attinto dai bei nomi di grido mediatico per affidare (o forse andrebbe detto: per abbandonare) le imprese culturali, è visibile a tutti. Adesso, nel trionfo dell’incompetenza, dove vai bene se non lo hai mai fatto, perché è segno di discontinuità e non di assoluta inadeguatezza, c’è il caos più totale.
Allora nella politica di oggi non ripongo speranze, ahimé; nel senso di responsabilità delle persone, invece, sì. Il più delle volte sono persone di pregio e con meriti sociali e creativi importanti. Appello: per favore, mettete da parte l’ego, la voglia di poltrona o di medaglie. E imparate a dire: “Grazie ma, no, non è il mio mestiere”.
‒ Fabio Severino
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #50
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