Sulla dimensione dello spazio esistenziale #2 (VI)
Sesto appuntamento con il testo critico realizzato in occasione della mostra “Lo spazio esistenziale. Definizione #2” realizzata presso la Fondazione Morra a Napoli, fra il 31 maggio e il 21 luglio 2019. Il testo è stato presentato in prima stesura il giorno dell’opening e mantenuto nello spazio come elemento di confronto e discussione con i visitatori utilizzando il tempo della mostra come momento critico attivo. Il risultato finale che viene qui pubblicato è la forma che lo scritto ha preso nei mesi in cui la curatrice ha vissuto all’interno del dispositivo abitativo che la mostra stessa costituiva.
Secondo Martin Heidegger, “non essendo esso stesso movimento, il tempo deve necessariamente avere in qualche modo a che fare con il movimento. Lo si trova innanzitutto in ciò che è mutevole” (Il concetto di tempo, Adelphi 1998).
Agostino di Ippona, invece, comparava l’esercizio del “sentirsi”, nell’esistenza presente, alla misurazione del tempo. Ma questo sentire e questo esserci sono, alle volte, funzioni troppo ingombranti, pesi eccessivi nella vita di alcune persone che tendono a manomettere i sistemi di percezione e valutazione dell’esistenza. È il paradosso, cui si faceva riferimento in precedenza, del risveglio nella camera bianca. Ma, contrariamente a quanto si possa pensare, proprio questa è la condizione più vicina al senso stesso dell’esserci e del tempo, ovvero, l’annientamento, la morte-in-vita, il non più, perché questa condizione pone il soggetto radicalmente come singolo individuo di fronte al proprio modo di vivere l’esistenza.
“Il non più scaccia ogni brigare, ogni affaccendarsi, trascina tutto con sé nel nulla”: è quanto sostiene Heidegger in relazione alla morte. E continua: “Questo non più non è un “che cosa” ma un “come”, e precisamente il “come” autentico del mio esserci. Questo non più, che in quanto mio io posso percorrere, non è un “che cosa”, ma il come del mio esserci puro e semplice”.
Ma il tempo pieno, forse, sta proprio in quell’equilibrio tra l’esserci e il non più. “[…] “che cosa è il tempo” è diventata “Chi è il tempo?”. Più precisamente: siamo noi stessi il tempo? O ancora più precisamente: sono io il mio tempo?”. A questa domanda il filosofo risponde: “Il tempo è l’esserci. L’esserci è il mio essere di volta in volta”.
In questo discorso la dimensione politica dell’esserci è molto evidente.
Ne è chiara la complessità, ma, daccapo, la prima negazione con cui si apre la citazione ci riporta alla sostanza di questa nostra discussione, ossia alla regione dello spazio-tempo in cui “io sono” e che contrappone la verità da strappare alla realtà dell’esserci.
Per farlo, mi sembra chiaro che si debba mettere il tempo contro se stesso, provocargli in questo modo un trauma che lo faccia uscire dai cardini liberando l’essere e l’esserci, rendendo labili i confini tra essi.
Nella mia osservazione ho incontrato le figure che abitano questo spazio nelle opere di Berlinde De Bruyckere, fossero esse figure antropomorfe o zoomorfe, o peggio ancora fossero monconi di vegetali in carne e ossa. Dei molti lavori di Berlinde, in questa mostra ce n’è uno in particolare. Sono due corna di carne. Sono corna di un animale sacro, il cervo, ma, nella forma e nella sostanza in cui sono presentate, non hanno più niente di animale e tutto dell’umano. Sembrano appartenere a quella dimensione erotico-mostruosa che è propria del mito e che con la circostanza che qui stiamo evocando sembrano avere molte convergenze. E, d’altra parte, se è vero che solo un dio potrebbe avere la tenuta mentale per poter mantenere la piena lucidità nella dimensione dell’essere svincolata dall’esserci, il mio intento di potermi porre in una circostanza critica ‒ dunque lucida ‒ all’interno dell’acquario sperimentale che ho costruito rappresenta in sé una sorta di bestemmia, di sfida titanica alle possibilità dell’io. Una sfida che certamente è destinata a fallire.
Per cui quelle corna, deposte, attaccate a un chiodo nel muro, non possono che essere mie, e, più ancora, non possono che essere la chiave che mi ha aperto le porte di questo spazio.
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Ma le corna sono dismesse. Stanno lì, appese al muro, forse troppo grandi e troppo pesanti perché io stessa riesca a indossarle ancora. Forse l’ho fatto, per un momento solo, l’attimo in cui questa ricerca ha preso forma. Dopodiché sono probabilmente crollate sotto il loro peso, lasciandomi soltanto il mal di testa e il senso della loro perdita, che si amplifica nel vederle attaccate al chiodo. E se le guardo, se entro nella stanza in cui le ho poste dimenticando per un momento che sia il mio vestibolo, allora esse diventano immediatamente l’armatura deposta di ognuno al suo ritorno a casa, la corazza ammaccata di chi, come me, tenta atleticamente di divenire una figura diversa, animale quasi, lontana dal mite flusso delle energie proprie e furiosamente intenta a superare i propri limiti; è l’armatura figurata, allora, della cassiera del supermercato che cerca l’equilibrio fra limiti sociali invalicabili o la madre incastrata in un vicolo cieco familiare che nei propri figli cerca l’energia, lo sbocco, per andare avanti ancora. Questa auto-sopraffazione delle proprie caratteriali andature procede attraverso una struttura protettiva, che, per quanto simbolica, mutuata o misera, è in grado di infondere una forza che solo apparentemente sembra venire dall’esterno, dandoci la capacità di mutare la reale consistenza dell’essere.
D’altra parte tutto il lavoro di Berlinde De Bruyckere rivela ciò che resta quando siamo spogliati di tutto ciò che dà parvenza d’essere umani, ciò che resta quando ci osserviamo con crudeltà. Alle sue opere si possono porre le medesime domande che poniamo a noi stessi. Il corpo, d’altra parte, è l’unica consolante prova della nostra esistenza, testimone del nostro essere, e allo stesso tempo portatore di quella mortalità che non necessariamente si riferisce alla rottura cardio-idraulica del nostro sistema biologico, ma anche, e spesso, all’impossibilità del movimento, dell’andare oltre. In questo punto preciso di riflessione non posso mentire sul fatto che si abbattono tutte le differenze tra il mio corpo (e quindi per estensione quello di qualunque osservatore) e quello dato alla luce da Berlinde. D’altra parte a condurre me fin qui non è stato un disumano intento scientifico di ricerca, ma la necessità di abitare quelle domande esistenziali che questi corpi sembrano portarsi dentro nel flebile sforzo che precede il collasso, nell’imminenza di un nuovo abbattimento e che mi connotano per essere non l’arbitro, ma un giocatore di questo gioco al massacro, un soggetto informe sempre sul punto, proprio come queste sculture, di raggomitolarsi su se stesso, nella propria pelle, lasciando allo sguardo solo un senso di profondo spaesamento e desolante immobilità. Di lacerante vulnerabilità.
‒ Lucrezia Longobardi
LE PUNTATE PRECEDENTI
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (I)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (II)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (III)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (IV)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (V)
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