Numeri, identità, musei e territorio. L’editoriale di Stefano Monti
Il numero dei visitatori è solo uno dei parametri di valutazione di un museo, ma non deve essere il solo. Specie se non si vogliono penalizzare le piccole, e preziose, realtà museali italiane.
Complici le grandi riforme, il settore culturale è stato recentemente investito da un’attenzione da parte di media e di opinione pubblica del tutto nuova per il settore.
Questo neo-ri-nato interesse, tuttavia, ha comportato una costante ricerca di applausi, il che ha spinto le amministrazioni, con il Ministero in prima linea, a ricorrere a “indicatori” di performance piuttosto “neutri” quando si parla di beni culturali.
Così come lo spread per i mercati finanziari (che solo pochi sanno cosa sia realmente), la cultura aveva bisogno di un indicatore che riuscisse a fornire all’opinione pubblica una indicazione sintetica dei successi dei nostri musei. Questo indicatore è stato individuato nel numero di visitatori e, per rendere la torta più ghiotta, ci si è inventati ogni sorta di espediente (domeniche gratuite, giornate gratuite, ecc.). Niente di male, ben chiaro, ma è naturale che così facendo si tende ad alimentare un “mercato delle superstar, in cui Uffizi, Colosseo, Pompei e pochi altri rivestono il ruolo di campioni, distogliendo l’attenzione dalla grande maggioranza dei musei italiani. Nel 2018, guardando ai soli musei statali, la reale distribuzione del numero dei visitatori vede un picco altissimo dei dieci istituti culturali più visitati, e un drastico calo tendente allo zero nel restante dei casi. In modo grossolano si può dire che, nel 2018, i visitatori delle prime dieci istituzioni (più di 33 milioni), superano di gran lunga il totale dei visitatori delle restanti 468 (21 milioni).
Bisogna però fare attenzione, perché adottare il numero di visitatori come elemento di valutazione rappresenta una premessa le cui conseguenze sono tutt’altro che piacevoli.
Logica vuole, infatti, che se misuriamo i musei sul solo numero di visitatori, i musei che mostrano valori di visitatori inferiori a una certa soglia debbano essere declassati (o forse chiusi). Ma siamo sicuri siano queste le metriche giuste per un settore come quello museale?
“I piccoli musei dovrebbero puntare a qualcosa di diverso rispetto a quello che rappresentano oggi le superstar dei musei: modelli di gestione più snelli, capacità di interloquire e di rappresentare il territorio”.
La realtà è che questa prospettiva rischia di appiattire delle sostanziali e sostanziose differenze che i musei cosiddetti minori mostrano al loro interno.
In questo mare magnum coesistono realtà territoriali fortissime e musei della cui esistenza sono ignari persino i vicini di casa; esistono musei “gioiello” e musei fantasma, abissi che le sole statistiche sui visitatori non riescono a evidenziare. L’avvento dei social network non ha aiutato in questo senso e, anzi, rischia di indurre quegli stessi musei che oggi vengono “declassati” ad adottare criteri di differenziazione che comportano le stesse conseguenze.
Si dimentica, anche in questo caso, che spesso il successo o l’insuccesso di un museo sui social è spesso correlato alle disponibilità di risorse (umane e finanziarie). È chiaro che, a parità di bellezza e di validità della propria collezione, un museo che può permettersi un social media manager (interno e/o esterno) cui assegnare anche un budget minimo per il posizionamento sui social, avrà maggiore successo (senza dimenticare che anche like e retweet possono essere acquistati).
La sfida di questo mondo, quindi, non è quella di competere sullo stesso terreno dei “giganti”, ma di trovare un senso diverso, un quadro di insieme che presenti una profondità maggiore rispetto a quanto like o numero di visitatori possano offrire.
L’esempio con il comparto privato può essere illuminante: le piccole imprese, che non possono competere con i leader del settore sulle leve del prezzo, hanno imparato a diversificare il loro prodotto, a valorizzarlo e a occupare uno spazio all’interno del mercato complementare a quello delle aziende con maggiori mezzi. Il risultato è che le piccole imprese mostrano dei vantaggi che nessuna grande azienda potrà mai avere: velocità e dinamismo, capacità di adattarsi ai cambiamenti di mercato, contatto diretto e relazionale con la propria utenza e personalizzazione dei prodotti. Allo stesso modo i piccoli musei dovrebbero puntare a qualcosa di diverso rispetto a quello che rappresentano oggi le superstar dei musei: modelli di gestione più snelli, capacità di interloquire e di rappresentare il territorio.
I musei minori dovrebbero essere il nucleo identitario di determinati spazi territoriali e costruire rapporti concreti con tutti i soggetti che sono emanazione di quel territorio.
Soprattutto, dovrebbero essere consapevoli che questa mission è tutt’altro che secondaria.
Anzi, è esattamente ciò in cui falliscono le grandi strutture museali, impegnate come sono nella gestione di milioni di visitatori annui.
Certo, non è un obiettivo semplice: rappresentare il nucleo identitario di un territorio implica una serie molto fitta di attività che spaziano dalle relazioni istituzionali ai servizi per la cittadinanza, dalle modalità di comunicazione alla capacità di poter raccontare la ricchezza culturale a soggetti che non sempre sono inclini all’ascolto. Tutte queste attività richiedono modelli di gestione e di controllo efficaci, attività di pianificazione, adozione di principi di management sia nella gestione interna che nelle relazioni esterne.
Uno sforzo immenso, spesso, per la dotazione organizzativa che hanno alle spalle.
Ma è su questo terreno, su questi obiettivi, che i piccoli musei dovrebbero confrontarsi; è lontano dai riflettori delle superstar che l’Italia della cultura può ripartire.
‒ Stefano Monti
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