Sulla dimensione dello spazio esistenziale #2 (VIII)
Ottavo capitolo del testo critico realizzato in occasione della mostra “Lo spazio esistenziale. Definizione #2” realizzata presso la Fondazione Morra a Napoli, fra il 31 maggio e il 21 luglio 2019. Il testo è stato presentato in prima stesura il giorno dell’opening e mantenuto nello spazio come elemento di confronto e discussione con i visitatori utilizzando il tempo della mostra come momento critico attivo. Il risultato finale che viene qui pubblicato è la forma che lo scritto ha preso nei mesi in cui la curatrice ha vissuto all’interno del dispositivo abitativo che la mostra stessa costituiva.
Seguendo i sogni dati da questi sonni rischiamo di addentrarci in territori più cupi di quelli fin qui affrontati, perché ogni sogno ha il suo rovescio e io non sono capace di scrivere, come ho appena fatto, salvezza e morte senza che tra loro un segno grafico li possa confondere. Sono territori dalle temperature elevate, in cui quasi nulla regge. I santi evaporano nelle campane di vetro, come nell’opera di Hélène Fauquet che ho messo vicino al mio letto. Questo commovente oggetto tipico delle case napoletane è un tentativo frustrato di sacralità che fallisce nelle mani dell’artista. Penso alla necessità di una figura che, al suo interno, possa essere conforto, guida, e mi ritrovo davanti il dramma di una icona che non ha retto alle temperature infernali di queste latitudini dell’anima. Si è dissolta lasciando un’aura di fumi e qualche minaccioso schizzo specchiante, una sorta di invocazione d’aiuto del santo, un ultimo misero tentativo di fermare questo affondamento lanciandomi contro il mio stesso volto.
D’altra parte, ogni viaggio ha un suo fondo. È il punto in cui finiscono i sogni. Se siamo arrivati fin qui vuol dire che ci troviamo proprio davanti a uno specchio, il punto di arrivo di una cerimonia della spogliazione, del confronto fra realtà e immaginazione, fra ego e alter ego, fra miseria e maschera del coraggio, a cui partecipa anche Luigi Ghirri, con uno scatto crudele, carpito in una provincia che nel suo lavoro non è mai stata altro che esistenziale. Vi si presenta l’immagine malinconica di un edificio rurale coperto, in parte, da un manifesto. Il muro della povera vecchia casa sembra così svanire, farsi trasparente, per mostrarci al suo interno l’impossibile assetto di una cucina “moderna”, sofisticata. Uno slittamento di piani, un gioco d’illusione retto da quell’ironia più volte richiamata in queste pagine, che mette in ridicolo un soggetto osservato facendo quasi percepire il suono delle cambiali che passano tra le dita di qualcuno che prova a essere qualcosa di meglio, qualcosa di più.
Ma poi, se si ha il tempo – e in questa regione scollegata dalla corrente ce n’è in abbondanza – di osservare ancora un po’ quel manifesto e tutta quella immagine, comincia a farsi chiaro come lo scherzo del finto vetro è in realtà un serissimo confronto con un vero specchio. Quel che ci mostra è un’immagine di noi colta all’uscita del sogno, nel punto in cui si sente l’attrito del ritorno alla realtà. Ed è qui che si innesca la vera trappola. Qui sta il paradosso. Nel fatto che il pericolo vero non sta nell’uscire dallo spazio e dal tempo, ma nel volerci tornare. Nel tempo che abbiamo passato fuori, a contatto con una verità dell’essere, pur senza rendercene conto, ci siamo gonfiati, siamo cresciuti al punto che l’essere che siamo diventati non riesce più a rientrare nell’abitacolo esistenziale del reale.
È lì che il sogno diventa scorsoio. E lì non c’è più realtà che possa contenerci, che possa saziarci.
***
C’è un cavo teso da una parte all’altra del labirinto, che si lancia in un punto e per certi versi sembra andare oltre il suo confine, oltre il suo fondo. Questo cavo è una disposizione malinconica dove possiamo trovare appese le riflessioni sulle matrici duchampiane che sono la storia dell’arte del Novecento. Agganciate ci sono le rimembranze delle numerose performance che negli anni hanno reinterpretato il sentimento di un rituale di trasformazione, una cerimonia iniziatica che Vettor Pisani, possiamo dire, abbia concluso con quest’opera, il suo ultimo Scorrevole. Questo lavoro è quindi la clessidra sul bordo del tavolo a cui ho accennato più volte in questo testo, con cui abbiamo giocato come il gatto per molto tempo. Pisani quella clessidra l’ha minacciata lungo un arco di decenni, finché non l’ha buttata giù. Il suo ironico approccio ha sempre suggerito una immorale, criticamente compromessa e tragicomica circostanza esistenziale nella quale lo stesso artista – che nel 1970 performa in prima persona – ne diviene corpo sacrificato nell’agonia di un tempo che, aprendosi come la maglia di una ragnatela, si raggela cristallizzandosi. Siamo giunti, qui, alla non sala. È, finalmente, la camera bianca cui ho più volte accennato e che qui si palesa con inquietante fascino, alle spalle dell’ambiente domestico accogliente in cui passo le ore con i visitatori che vengono a trovarmi nello S/spazio E/esistenziale. È una stanza asettica, questa, che ospita lo Scorrevole, priva di cromie alle pareti o mobilio, è spudoratamente una sala mentale, una sala della coscienza che poco ha a che fare con la casa fisica. È infatti la sala dell’oblio, l’unico ambiente in cui poteva apparire l’ultima opera dell’artista barese, pardon, ischitano. Nel reiterato esercizio di perdita di se stessi, nell’agonia di un’esistenza sperperata all’abbandono della propria coscienza è questo il punto d’arrivo per coloro che decidono di compiere un ultimo movimento, fatale. Questo punto di non ritorno è la reale interruzione del tempo che agisce su ogni piano conosciuto, sia esso sociale che esistenziale. È la morte per induzione che blocca le lancette in maniera definitiva e irrevocabile. L’unica modalità di uscita dal tempo che permette di sbloccare l’impasse dello stallo, l’ennesimo tentativo di salvezza che ritorna in un gesto “eroico”, una forte contesa con se stessi. Vettor Pisani negli anni ha lasciato “appendere” a quel dispositivo diverse persone, da sua sorella alla sua compagna, alla moglie di un amico artista; in questa ultima versione, però, la materia umana è sostituita da una bambola infantile legata per un piede e ciò che rievoca la persona è soltanto lo spettro di cui si percepisce la vicinanza.
La cosa più difficile del vivere in questa “mostra” è stato il riposare. Il cavo di questa opera, esattamente come un avvoltoio su di una spalla, da un lato era agganciato esattamente di fronte al lettino monacale sul quale dormivo, e questo comportava avere un’estremità dell’opera sempre dinanzi allo sguardo mentre mi adagiavo sul materasso. Era esattamente come avere il fantasma di Vettor seduto all’angolo del letto, il fantasma di mio zio Ugo, la presenza spettrale di tutti coloro che hanno deciso di non rientrare più nella realtà, uomini e donne che hanno preferito questa uscita d’emergenza per potersi salvare dal peso eccessivo dell’esistenza.
La disperazione è l’elemento olfattivo che meglio si può cogliere in questa parte d’acquario dove i sensi si riattivano in un ultimo, energetico, momento d’azione.
‒ Lucrezia Longobardi
LE PUNTATE PRECEDENTI
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (I)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (II)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (III)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (IV)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (V)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (VI)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (VII)
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