Intervista a Cesare Pietroiusti per la sua prima retrospettiva in un museo. Al MAMbo di Bologna
Un’intervista, in anteprima, a Cesare Pietroiusti, nei giorni dell’allestimento della sua prima antologica in un museo
Nel cortocircuito di una retrospettiva che non soltanto indaga lo sviluppo diacronico di una carriera artistica, ma concepisce ex novo una mostra-racconto fatta di sessantatré “oggetti-anno”, risiede la portata straordinaria di “Un certo numero di cose / A Certain Number of Things”, progetto personale di Cesare Pietroiusti – a cura di Lorenzo Balbi – che apre il prossimo 4 ottobre (opening il 3 ottobre alle 18,30) nella Sala delle Ciminiere del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna. Interprete della pratica performativa e relazionale, tra sperimentazione linguistica e pensiero concettuale, Pietroiusti, artista e Presidente del Palaexpo di Roma, sottrae e capovolge immagini, contesti e relazioni, restituendo “un certo numero di cose” paradossali, oltre le convenzioni e oltre l’ordinario. Come il racconto ossessivo, in soggettiva, di spazi vuoti dove farsi confinare. Non c’è traccia di spettacolo perché il senso si risolve nella misura del disorientamento e germina tra le pieghe del linguaggio o negli interstizi della vita quotidiana.
In un’intervista del 2007 immaginavi cosa avresti pensato se ti avessero “commissionato” una retrospettiva all’interno di un museo. L’idea, allora, era quella di raccontare i tuoi lavori a tante persone e poi allestire in ogni sala un lavoro sotto forma di persona che, a sua volta, racconta al pubblico quello che tu hai precedentemente descritto. Così facendo questi filtra attraverso la propria memoria e aggiunge una personale interpretazione producendo un lavoro altro all’interno del quale il tuo rappresenta un mero espediente. La narrazione – e la relazione – al potere, insomma. In Un certo numero di cose / A Certain Number of Things, invece, cosa è successo?
L’idea nasce da una riflessione di vecchia data sul concetto di mostra retrospettiva: negli anni ho formulato molteplici ipotesi sulla possibilità di rappresentare il percorso di artista in tale formato. Raccontare il mio lavoro, e farlo trasmettere al pubblico da altre persone, è un’idea suggestiva ma molto difficile da realizzare dal punto di vista museale. Nel 2015, invece, ho inaugurato una vera retrospettiva, ma di opere sbagliate, dal titolo “Lavori da vergognarsi, ovvero il riscatto delle opere neglette”, nello spazio romano Zoo Zone Art Forum. La mostra consisteva in alcune opere che avevo prodotto fra fine anni ’70 e anni Duemila ma che, per ragioni diverse, non avevo mai esposto. La retrospettiva al MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna è costruita sull’idea di interpretare retrospettivamente la mia ricerca artistica insieme alla mia vita, autonarrandomi non soltanto attraverso le opere, ma anche tramite oggetti, azioni e ricordi a partire dal mio anno di nascita, il 1955.
La strategia dell’oggetto-anno tesse una narrazione che si compone di significanti e di significati con uno spartiacque temporale, il 1977, ovvero l’anno in cui hai intrapreso la strada dell’arte. Raccontamela.
“Un certo numero di cose / A Certain Number of Things” si articola lungo un percorso scandito da “oggetti-anno” allestiti in ordine non rigorosamente cronologico: documenti, fotografie, dischi, lettere, album di disegni, libri e, ovviamente “opere d’arte”. Nella gestazione di questo progetto sono emerse delle rispondenze sorprendenti, e naturalmente involontarie, tra la mia ricerca di artista e alcuni episodi precedenti. Creare connessioni tra epoche differenti ha rappresentato una vera e propria drammaturgia della narrazione della mostra. Avevo otto anni quando, insieme a un mio compagno di giochi, sono rimasto a lungo nascosto sotto il letto nella mia stanza, tentando di forare il muro che divideva casa dei miei genitori da quella di mia nonna. Già in quell’azione era in nuce la strategia, tipica di molti miei lavori, di oltrepassare i confini di uno spazio dato: fisico, mentale o sociale.
Questo episodio, inoltre, rivela la tua ossessione di artista la cui opera consiste e si sviluppa nella relazione. Il tuo agire è sempre sociale, teso alla costruzione di reti. Perché?
Per me il tema della relazione è trasversale: per esempio, può essere intesa come dialettica tra esterno/interno di uno spazio fisico, sia esso la casa o il museo, o lo spazio del sé. La retrospettiva comprende un’opera emblematica del 1988, Bar di Radda in Chianti, in cui per la prima volta esponevo in uno spazio diverso da quello della sede della mostra: l’opera consisteva nella porta del bagno di un bar, che era coperta di graffiti, messaggi osceni, insulti, numeri di telefono e sgorbi vari. Fotografai l’interno della porta e applicai l’immagine, in scala 1:1, sull’esterno della stessa (che era ovviamente del tutto “pulito”) così da far “uscire” ciò che era nascosto.
E il tema relazionale?
La centralità del tema relazionale deriva sia dal mio retroterra di studi medico-psichiatrici e psicologici, che dal fatto che, come artista sono cresciuto nel gruppo che ruotava intorno a Sergio Lombardo. Il centro studi Jartrakor era un vero e proprio laboratorio, oltre che uno spazio espositivo. La costruzione del progetto avveniva sempre secondo un processo corale di discussione, sperimentazione, condivisione. Per me la cosa più bella – l’estasi, l’essere, letteralmente, fuori da sé – consiste nella condizione in cui un’idea è salutata dai partecipanti di un gruppo come una “figlia”, allo stesso tempo, di tutti e di ciascuno.
Se è vero che i significati si originano dall’incontro delle differenze, vorrei che mi raccontassi la costruzione di questa retrospettiva insieme al curatore Lorenzo Balbi.
La mostra nasce in effetti da un incontro e da un dialogo. Quando Lorenzo Balbi lavorava alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, veniva spesso a trovarmi in studio, a Roma, accompagnando i partecipanti del programma di formazione per giovani curatori italiani e internazionali. Durante quegli incontri raccontavo spesso a lui e agli altri del paradosso di fare, della retrospettiva – l’occasione in cui un artista rivisita le proprie opere del passato – un nuovo progetto, forse addirittura una reinterpretazione delle opere vecchie come opere nuove. Quando è stato nominato direttore, Balbi ha voluto darmi l’opportunità di trasformare quest’idea in mostra, “giocando” insieme a me.
Gli oggetti che rappresentano gli anni dal 1955 al 2018 sono allestiti intorno all’ultimo oggetto-anno, relativo al 2019, che è collocato al centro della Sala delle Ciminiere, in una struttura simile a un “ring” che sarà talvolta accessibile al pubblico. Raccontami del workshop che è in corso da settembre.
Il 2019 è una sorta di super-oggetto, un’opera in fieri che riproduce (ripensa, trasforma…) gli oggetti in mostra, fisicamente, performativamente, narrativamente – sempre in modalità co-autoriale fra i partecipanti al laboratorio e me. E’ come una mostra nella mostra, fatta insieme a quindici giovani artisti bolognesi, e condotto su due sedi, il MAMBo – Museo d’Arte Moderna di Bologna e il Grazer Kunstverein di Graz. Il progetto è supportato da Italian Council e, almeno nelle sue parti trasportabili, ha come istituzione di destinazione il Madre – museo d’arte contemporanea Donnaregina di Napoli.
È in mostra, dunque, oltre che l’artista Cesare Pietrousti, anche l’uomo. Hai più volte descritto l’artista come colui che gode di un lusso straordinario, quello di esplorare sperimentalmente la propria vita, i propri pensieri e le relazioni con gli altri facendo diventare tutto ciò un lavoro. Prendendo in prestito la centralità dell’anno 1977, chi era l’artista di allora e chi è quello di oggi?
Nel 1977 usavo la parola “artista” con imbarazzo. Stavo ancora studiando medicina e non credevo di poter fare l’artista nella vita. Dalla mia possedevo l’energia della curiosità e forse dell’insoddisfazione dell’adolescente. In quell’anno, come dicevo, entrai a far parte di un gruppo che declinava la tendenza all’estremismo non sul piano ideologico-politico, ma su quello della sperimentazione artistica.
Come ti vedi oggi?
Oggi direi che sono soprattutto una persona grata: per le opportunità che ho avuto e per le esperienze che ho vissuto, per le persone che ho incontrato e per la bellezza e la conoscenza che ho avuto la fortuna di incrociare. E mi sembra straordinario aver potuto trasformare finanche i fatti dolorosi dell’esistenza in materiale al servizio del mio lavoro di artista. Un grande privilegio che, alla fine, credo sia disponibile per chiunque se lo voglia andare a cercare.
–Giusi Affronti
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