Lo strumento più vivo
“So, we go on. We do our work. We make our music. We explore ideas”. Poche idee, ma chiarissime. Sono quelle di un personaggio mitico della cultura musicale americana, Joan La Barbara. Con la quale abbiamo scambiato qualche veduta.
Una personalità travolgente e l’onore di prendere parte a una delle fasi più creative della musica contemporanea americana. Un talento formatosi nel fermento creativo della New York degli anni Settanta, nella Soho dei teatri occupati da Philippe Glass, nelle gallerie e nei loft del Greenwich Village e delle performance di Merce Cunningham. Questi sono alcuni dei luoghi e dei nomi emersi nella piacevole conversazione con Joan La Barbara, cantante, compositrice, artista del suono. La quale, tra ricordi e nuovi progetti, ci racconta che cosa significa per lei “ispirazione”.
Quando hai deciso che avresti dedicato la tua vita alla musica?
Ho sempre saputo che sarei diventata una cantante. Mia madre sostiene che non avessi nemmeno due anni la prima volta che glielo confidai. Ma fu solo durante gli anni del college che iniziai a dedicarmi esclusivamente alla musica e alle performance vocali. Fu in quel periodo, infatti, che arrivarono i primi ingaggi pubblicitari, soprattutto per la radio.
Come descriveresti l’esplosione di cultura e creatività che ha travolto New York negli anni Settanta, e come ricordi l’esperienza di quell’avanguardia musicale?
È stato un periodo magico. Si avvertiva un grande coinvolgimento sociale, che creava il terreno fertile per un puro scambio di idee, a ogni livello e tra le più diverse forme di espressione. Molti artisti vivevano a Soho, che a quei tempi non era cara. Era una comunità estesa dove si condividevano materiali, strumenti ed esperienza, e le perfermance si tenevano nelle gallerie d’arte o nei loft della zona. Ricordo che c’era un posto chiamato Free Music Store, dove la radio WBAI registrava le improvvisazioni dei musicisti il giovedì sera, tra i quali Anthony Braxton, Steve Lacy, Fredric Rzewski, Garrett List, Jay Clayton. Solo per dirne alcuni. È così che conobbi Philippe Glass: scrisse alcuni musical per i Mabou Mines, la compagnia teatrale dell’allora moglie Joanne Akalaitis, una mia amica ballerina. Ci conoscevamo tutti. E poi fu proprio Philippe a presentarmi John Cage e Merce Cunningham, anzi, a parlare a loro di me per un progetto di sperimentazione vocale.
Sentendo nominare John Cage, non posso non chiederti cosa ti abbia donato lavorare con lui.
Ho lavorato con Cage per più di vent’anni. Venne a un mio concerto nel 1975, Voice-Piece: One-Note Internal Resonance Investigation e Circular Song. Alla fine della performance venne da me e mi disse che quello che avevo fatto era “meraviglioso” (uno dei suoi commenti positivi preferiti). Mi chiese di cantare un pezzo per lui (come dire di no?) e fu così che scrisse Solo for Voice 45, 18 pagine di “aggregati”, come li definiva lui, ovvero frammenti di note in chiavi diverse e di numeri che indicavano quante tonalità dovevano essere scelte per ogni chiave.
Il compito per il cantante era improvvisare, inventarsi una voce guida seguendo le lettere al di sotto di ogni aggregato e cantarlo il più velocemente possibile.
Non una passeggiata…
Mi ci vollero sei mesi per imparare i frammenti. Quando fui pronta, cominciammo a provare. “È meraviglioso”, disse lui appena finii, “ma non abbastanza veloce. La tua voce deve sembrare come il volo di un uccello, come fosse calligrafico”. Così tornai al lavoro, finché non fu tutto come voleva. Ci esibimmo la prima volta con l’orchestra di Den Haag, in un concerto di 2 ore e 40 minuti in occasione del bicentenario americano, il 3 luglio del 1976. Fu un evento infame! Non piacque a nessuno, ma lui sembrava la persona più soddisfatta del pianeta: aveva raggiunto l’idea che aveva in mente.
Che ricordo hai di lui?
Era un uomo estremamente generoso, sempre pronto a dare risposte piene di significato. È stato tremendamente frainteso in vita e, nonostante il suo talento sia ormai conclamato, ci sono ancora persone disinformate che credono che le composizioni di Cage siano sommarie. Le migliori rappresentazioni del suo lavoro sono quelle eseguite alla lettera, ovvero quelle che prendono le sue istruzioni sul serio, e sulle quali il musicista dovrà esercitarsi duramente per provare a realizzare ciò che John vorrebbe raggiungere. La lezione più importante che ci ha lasciato è che dovremmo imparare a considerare tutti i suoni come musica: questo è il punto di partenza per un compositore, nulla dovrebbe essere scartato semplicemente perché considerato illogico. Tutti noi oggi beneficiamo di questa idea e della libertà che ci ha dato di esplorare.
In qualità di compositrice, hai spaziato dal divertimento di Singing Alphabet dei Muppets, dedicato a un pubblico di giovanissimi, al minimalismo di Autumn Signal. Cosa ispira e dove inizia il tuo processo creativo?
Diverse sono le cose che m’ispirano: l’arte visiva, i frammenti di testo, i sogni, il mio pappagallo, il mio cane, il cielo, il vento, l’amore, mio figlio. Il mio processo creativo spesso nasce dalle parole. Le raccolgo in un flusso di pensiero discontinuo, su un giornale, e provo a non censurare niente. La maggior parte delle idee mi raggiuge quando sono in movimento: guidando la macchina o viaggiando in treno. Il mio strumento preferito? L’improvvisazione.
Che ruolo ha la donna nella scena musicale contemporanea? È davvero una comunità “neutrale”?
No, non lo è ora e non lo è mai stata. La gente tende ad ascoltare quel che già conosce e a considerare poco brave le donne che lavorano su concetti astratti come la musica. Per farti un esempio, trovo terribile che la Filarmonica di New York non abbia inserito nemmeno una donna nel programma musicale della prossima stagione. Ci sono ottime compositrici: alcune hanno uno stile più conservatore, altre usano molti strumenti elettronici, altre ancora sfidano i limiti dei diversi sperimentalismi lasciati dai movimenti Anni Ottanta di Lachenmann e Cage. Non è stupefacente che un direttore musicale non conosca nessuna di queste opere?
Martina Camilleri
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