A tu per tu con Tommaso Tisot, ideatore del fondo destinato alle giovani gallerie di Artissima
Sostenere le giovani gallerie vuol dire mandare un messaggio forte a un sistema che tende a soffocare chi fa ricerca. Il creatore del New Entries Fair Fund ci spiega qui la sua visione. E lancia anche una sfida ai nuovi galleristi.
Con Artissima alle porte (dall’1 al 3 novembre) viene presentata al pubblico anche la seconda edizione del New Entries Fair Fund, un fondo interno alla fiera torinese istituito dall’avvocato e collezionista altoatesino Tommaso Tisot. Alle spalle del progetto, c’è la sua società di consulenza, la Professional Trust Company, legata anche alla gestione di patrimoni e collezioni d’arte. L’obiettivo? Sostenere le gallerie emergenti, attive da non più di cinque anni. Ogni anno ne vengono scelte tre, considerate più interessanti per la ricerca e la qualità delle proposte, ricevendo un contributo economico di 4.000 euro ciascuna per finanziare la loro presenza ad Artissima. Quelle che partecipano all’edizione 2019 sono: la Emalin di Londra, con un progetto di Athena Papadopoulos; Öktem Aykut di Istanbul, con un progetto di Can Altay e Ihsan Oturmak e la Vin Vin di Vienna, con un progetto di Myles Starr. Un premio che non punta solo a sostenere i singoli artisti, ma va oltre, con l’ambizione di dare una scossa al sistema dell’arte – soprattutto italiano – proponendo una soluzione alle sue stesse falle. Tisot, inoltre, sarà anche parte del talk Nuovi Modelli di Residenza (in programma per sabato 1 novembre alle 16:30) assieme a Edoardo Monti in cui, tra gli altri argomenti, si tratterà del progetto di Palazzo Monti, residenza artistica sorta in un palazzo storico di Brescia sviluppato grazie alla creazione di un trust apposito. L’intervista.
Come nasce la storia del New Entries Fair Fund?
Sono un collezionista e appassionato d’arte di lunga data, con una particolare attenzione verso gli artisti emergenti. Mi hanno sempre domandato come si sarebbe potuto intervenire a sostegno dei giovani all’interno del sistema fiere: il problema maggiore resta il costo dello stand, che non consente di avere budget per la ricerca. E si finisce per presentare nomi già noti, nel tentativo di ridurre i rischi.
Come ha pensato di arginare questo problema?
Parlando con Ilaria Bonacossa, abbiamo pensato a qualcosa di alternativo alla formula del “premio-acquisizione”, che può aiutare qualche singolo artista, ma non è di impatto sul sistema. È il sistema che va aiutato. Con il New Entries Fair Fund facciamo in modo che le gallerie abbiano lo stand pagato: quella somma che risparmiano possono investirla per fare ricerca, e persino produrre nuove opere. Un segnale importante che già dall’anno scorso ha portato buoni risultati e che ha fatto notizia anche all’estero.
Perché ha scelto proprio la fiera di Artissima a cui destinare questo fondo?
Ritengo che abbracci pienamente la mia filosofia di collezionista, dal punto di vista della ricerca e della sperimentazione. Artissima è sempre stata diversa, e ha sempre goduto di una maggiore vocazione internazionale. Non solo i curatori e i critici presenti sono di alto livello, ma c’è anche un collezionismo molto sofisticato. Volevo che la mia scelta ricadesse comunque su una fiera italiana per supportare il mercato nostrano.
Eppure, la scelta finale è ricaduta su tre gallerie provenienti da Istanbul, Londra e Vienna. Come mai?
È vero, ma non del tutto: nonostante vengano dall’estero, queste gallerie mantengono una parte italiana al loro interno. Il gallerista di Vin Vin Vincenzo della Corte ad esempio, anche se vive a Vienna è napoletano doc. Per quanto riguarda Emalin, uno dei due soci è milanese. La componente italiana è rimasta, e anche il pensiero di tornare per aprire uno spazio qui. A maggior ragione vanno sostenuti.
Cosa ne pensa di questa “fuga di cervelli” o meglio, di professionisti del settore artistico?
La mia azione di quest’anno è volta proprio a un “rientro di cervelli”: ad esempio, Emalin non aveva mai preso in considerazione la partecipazione ad Artissima, per un’incertezza delle vendite. È inconcepibile che l’Italia, da culla della cultura sia diventata un paese con un sistema tanto instabile. Vin Vin e Emalin sono due casi di italiani andati all’estero perché lì riescono a sostenersi meglio. Molti artisti, per il fatto di essere italiani, fanno fatica ad affermarsi, a meno che non abbiano una galleria straniera che li rappresenti.
Quindi cosa si può fare?
Alla base della scelta del New Entries Fair Fund c’è un’attenzione al sistema. Quello che vorrei arrivare a dimostrare è che non è vero che un gallerista deve andare ad aprire una sede a Vienna per avere un riconoscimento internazionale spendibile, se il suo lavoro è già molto valido. D’altro canto, se il sistema italiano non lo supporta, fa bene a restare in Austria. Il rischio, però, è che a forza di portare fuori i nostri artisti, perdiamo come sistema-Italia.
Come funziona la selezione delle gallerie destinatarie del fondo?
La prima selezione è fatta dal comitato scientifico assieme alla curatrice Lucrezia Calabrò Visconti. Per quanto la mia conoscenza da collezionista sia appassionata, è giusto lasciare ai tecnici il loro compito. Io poi intervengo su una base di venti gallerie, una scrematura non sempre facile. Ma quando le seleziono sono attento non solo al lavoro che portano in fiera, ma anche a quello complessivo che svolgono durante tutta la programmazione annuale.
Quale tipo di ritorno pensa che questo progetto possa avere sulla sua società, la Professional Trust Company?
Sicuramente non è un investimento dal ritorno immediato, la prima motivazione che mi muove è una passione e un interesse genuino a sostenere nuovi talenti. Dall’altro lato, il mio lavoro ha anche a che fare con il mercato dell’arte e questo è un modo per far conoscere il nostro core business, quello che facciamo, in modo più strutturato e globale. Un lavoro divulgativo e di immagine che ci permette di informare potenziali clienti su cose che magari non sapevano neanche che si potessero fare. Inoltre, abbiamo ideato assieme a Edoardo Monti (e sarà oggetto del talk di quest’anno ad Artissima) un progetto culturale per Palazzo Monti, che costituisce un modello di come il privato possa intervenire a sostegno del pubblico.
Ha espresso a più riprese la sua dedizione per gli artisti emergenti e per il talent-scouting. Come costruisce la sua collezione?
La mia è una collezione molto ricercata e attenta, con dinamiche ben precise. In questo momento sono molto concentrato sul mercato sudafricano (e africano in generale) e su quello mediorientale. È la parte attualmente più interessante, su cui si sta spostando l’attenzione anche di tanti altri collezionisti. Nelle opere degli artisti provenienti da queste aree del mondo ci sono delle tensioni politiche e religiose che emergono con forza. In particolare, sono molto stimolato dal lavoro degli artisti turchi.
Cosa deve fare, o quali requisiti deve avere una galleria emergente, secondo lei, per partire con il piede giusto?
Bisogna avere intuito e anche un po’ di fortuna, per non farsi fagocitare da un sistema molto particolare. È essenziale partire con una buona base culturale. Bisogna essere conoscitori del sistema. Il mio primo consiglio è non andare dietro ai trend: non si sa quale sarà la loro durata, e anzi spesso chi va contro le mode è colui che riesce a rompere il sistema. Ce lo insegnano gli artisti: i più controcorrente sono stati anche quelli che sono rimasti nel tempo.
Dia qualche altra dritta.
Un giovane gallerista deve avere coraggio. Deve fare tanta ricerca, visitare gli studi degli artisti e stargli vicino. Capire la loro filosofia e capire “la testa” che hanno. Cercare in loro prospettiva, futuro, visione. Ma quello che è più importante: se “sposa” un artista deve crederci fino in fondo. E porto anche un modello virtuoso: i giovani imparino da Massimo Minini, un gallerista d’altri tempi (lontano dal modello “enterprise” di oggi). Uno che non ha mai mollato i suoi artisti.
-Giulia Ronchi
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