Artisti da copertina. Parola a Federico Cantale
La filmografia di Christopher Nolan e la tradizione futurista sono le due fonti di ispirazione principali di Federico Cantale, l’autore della cover del nuovo Artribune Magazine.
Al liceo ha studiato col ceramista Enzo Castagno, una figura che ha avuto grande influenza sul suo percorso. Federico Cantale, classe 1996, si potrebbe definire un abile fumettista/illustratore in 3D. Le sue sculture non sono modulari ma pezzi unici da osservare a 360 gradi, da ogni angolazione possibile. Ha una cura millimetrica nella progettazione, anche grazie all’ausilio di Autocad, che si “sporca” nell’oggetto finale con la pittura rigorosamente applicata a mano. I colori vengono dalla filmografia di Chistopher Nolan ma anche dalla tradizione futurista. La forza del suo lavoro sta nell’unire con “leggerezza” una spiccata fascinazione per la cultura pop, che va dai supereroi ai Pokemon agli Anime giapponesi, con il cinema d’autore e con una progettazione meticolosa da architetto.
Quando hai capito che volevi fare l’artista?
In terza liceo, quando ho fatto una piccola scultura sul tema Casa con albero e mi sono reso conto che spaccava tutta la Storia dell’Arte.
Hai uno studio?
Sì, a Milano.
Quante ore lavori al giorno?
Molte.
Preferisci lavorare prima o dopo il tramonto?
Con una bella Luna.
Che musica ascolti, che cosa stai leggendo e quali sono le pellicole più amate?
Italiana varia da ascoltare in auto, Jovanotti. Narrate, uomini, la vostra storia di Alberto Savinio. La trilogia del cavaliere oscuro di Christopher Nolan, L’uomo che amava le donne di François Truffaut e Alla ricerca di Nemo di Andrew Stanton e Lee Unkrich.
Un progetto che non hai potuto realizzare, ma che ti piacerebbe fare.
Tanti, per mancanza di spazi adatti, ma pian piano farò e faremo tutto.
Qual è il tuo bilancio fino a oggi?
Direi positivo. Ho l’energia del coniglietto Duracell.
Come ti vedi tra dieci anni?
Astemio!
Al liceo hai studiato col ceramista Enzo Castagno che, mi hai detto, ha molto influenzato il tuo percorso. In che modo?
Mi ha educato ai maestri dell’arte e della letteratura, continuandolo a fare tuttora. Ogni volta con lui è una cascata di storie e scoperte. Per certi versi mi ha insegnato a guardare. Una delle domande più belle che mi ha rivolto è stata: “Vecio, dov’è l’uomo?”. Lo odio per questo.
Hai una passione per la cultura pop (supereroi compresi) e il cinema d’autore. Come convivono nei tuoi lavori?
Naturalmente. Ciò che vedo e che mi fa fare scoperte è ciò che poi rielaboro nella mia visione. L’idea di una cultura che generalizziamo con il termine “pop” mi piace per questioni archetipiche e di miti d’oggi, uguale per me, per te e per mia nonna in Sicilia. Forse non per gli Indios, ma qui entreremmo in discorsi lunghi. Il cinema d’autore (come la cucina stellata) invece non è altro che il parallelismo con l’arte dei maestri, o in qualche modo con una pratica eticamente responsabile nei confronti del mondo e pro un’idea di Storia dell’Arte circolare e non cronologica. Potremmo definirlo come una nicchia. Io ammiro come un Christopher Nolan, un Tarantino o un Bottura riescano a prendere dei miti pop, apparentemente saturi (come potrebbe essere il soggetto “Pesce” per Brâncuși) e farli diventare capolavori. Nolan e Tarantino fanno cinema d’autore, etico, responsabile, riuscendo a fare un botteghino hollywoodiano, da record. Per esempio ho avvertito questo spirito in Roberto Cuoghi e Giorgio Andreotta Calò alla Biennale di Venezia del 2017.
Molti dei tuoi colori provengono dalla filmografia di Christopher Nolan ma anche dalla tradizione futurista. Un’associazione inedita, non trovi?
Non saprei, mi fa piacere che lo pensi. Ci rifletterò su. So che il colore è importante ma non so ancora perché. Credo di tendere sempre a unire due mondi nell’opera: la Storia dell’Arte, con cui mi pongo dei pilastri culturali fra i quali muovermi, e ciò che vedo quotidianamente, da cui solitamente nascono i soggetti, i colori, le forme.
Hai una progettazione meticolosa, millimetrica, “fredda”. Ma la scultura finale è sempre dipinta a mano, “calda”. Meccanico/industriale versus fatto a mano/artigianale.
Un po’ quel binomio a cui ho accennato prima. Progetto sempre al 100% un lavoro, tanto poi esploderà comunque, una volta portato nel mondo reale. Tendo a lavorare un pezzo all’80% in modo meccanico o con un artigianato specializzato, mentre il rimanente 20% – che possiamo identificare come l’elemento “sensibile/emozionale” – è sempre fatto a mano da me. In questo gioco si crea un qualcosa d’impalpabile, non si coglie cos’è industriale e cosa non lo è. Tra il morto e il vivo. Tra la pausa e il movimento. Ti dico che lo saprei fare, ma che non ne ho bisogno o non m’interessa. A mano realizzo il punto che dev’essere a fuoco, che deve avere l’uomo. Questo me l’ha insegnato Piero della Francesca con la Pala di Brera.
Di primo acchito le tue sculture sembrano modulari. In realtà sono pezzi unici da osservare a 360 gradi, da ogni angolazione possibile.
Lavoro con un materiale solo, in un blocco unico o più pezzi saldati indelebilmente. L’unico modo per dividerli sarebbe rompere il pezzo. Ultimamente lavoro con dei monocromi per mettermi in difficoltà e liberare luci e ombre.
I titoli delle tue opere sono sempre molto curiosi: Sale e Pepe, Cooper (dal pilota di Interstellar), Eye Liner… Da dove trai ispirazione?
Dal lavoro stesso.
Com’è nata l’immagine che hai creato in esclusiva per la copertina di questo numero?
Pensando di non volere una semplice foto.
‒ Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #52
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati