Guardare il museo come un soggetto con un ruolo attivista nei confronti della società attuale, nelle sue complessità e diverse sfumature, significa considerarlo dalla prospettiva etica, professionale e di ricerca più emergente e attuale nella museologia contemporanea. La recente pubblicazione Museum Activism raccoglie oltre una trentina di esperienze professionali e di ricerca provenienti da sei continenti che indagano le trasformazioni manageriali, professionali e di missione che questo nascente orizzonte di lavoro comporta. L’introduzione dei due co-editori parla chiaro e richiama con urgenza un maggiore impegno etico da parte delle istituzioni culturali di tutto il mondo alla luce degli attuali scenari politici, sociali e ambientali. Il libro riflette anche sulla valutazione degli impatti e sulla dimensione di cambiamento gestionale e organizzativo che un crescente attivismo necessita e scatena. Analisi che assume valore specialmente nell’ottica di agire in questo senso anche in Italia, dove in mancanza di una concezione di welfare culturale capillarmente diffusa si potrebbe rischiare di considerare come attivismo una serie di pratiche (a mo’ di trend) esportabili da un contesto a un altro. Al contrario, queste azioni hanno un carattere di forte interdipendenza rispetto all’ambiente in cui si instaurano. Necessitano quindi di essere analizzate in modo transnazionale e interdisciplinare per essere eventualmente tradotte e interpretate in altri ambienti. Possono manifestarsi, per esempio, in sottili cambiamenti a livello di mentalità spinti anche dal basso. E questa prospettiva d’azione rappresenta una via perseguibile nel quotidiano anche da chi lavora oggi in Italia nel settore culturale.
Tenendo questa cornice sullo sfondo, voglio iniziare a riflettere sul ruolo attivista dei musei in rapporto a un tema apparentemente slegato dall’attività dei luoghi della cultura, ma in realtà molto caldo nel dibattito sociale a livello di politiche educative, di equità e di diritti civili; ovvero la diversità di genere e di orientamento sessuale.
L’ESEMPIO DI AMSTERDAM
Vorrei partire dalla pratica, riflettendo su quanto sta avvenendo con l’obiettivo di comprendere se e come certi approcci potrebbero essere di spunto per altri contesti.
Il mio percorso di narrazione ha luogo nei Paesi Bassi, dove sto svolgendo un percorso di formazione e ricerca sostenuta dalla Fondazione Banca del Monte di Lombardia tramite il Progetto Professionalità Ivano Becchi. Il mio sguardo è quello di una ricercatrice formata in museologia che ha accumulato diverse esperienze nell’ambito dell’accessibilità e del coinvolgimento dei pubblici nei musei.
Vorrei iniziare questo percorso da Amsterdam, città decisamente attiva nella tutela dei diritti delle persone LGBTQ e inclusiva per quanto riguarda le possibilità di aggregazione ed espressione di diversi gruppi sociali. Qui le contaminazioni fra mondo culturale, questioni di genere e orientamento sessuale sono evidenti da oltre un decennio. Nel mese di ottobre, vuoi perché ricorre un’iniziativa che vede le istituzioni culturali impegnate nel dare visibilità ai punti di vista minori nella storia da una prospettiva di genere – si sa, la Storia spesso viene scritta al maschile – ha un calendario fittissimo di appuntamenti. Al Tropenmuseum, la mostra What a Genderful World indaga, attraverso un percorso espositivo articolato, diversi temi e stereotipi che ruotano attorno al genere. Già dal titolo si può intuire come l’idea sia quella di riflettere da una prospettiva il più possibile globale e interculturale. Una proposta di lettura ambiziosa che acquisisce senso in un’istituzione dedicata a ospitare le culture delle ex colonie olandesi; quindi sensibile al dibattito sulle rappresentazioni da un punto di vista politico e sociale oltre che culturale. I materiali in mostra sono di varie tipologie (fotografie, oggetti d’uso, poster, video, installazioni, opere d’arte) e i testi nelle didascalie incoraggiano i visitatori a confrontarsi su questioni attuali attraverso domande aperte: Qual è la differenza fra sesso, genere e orientamento sessuale? Una persona con disforia di genere (quindi trans) è necessariamente gay o lesbica? Quale posto riveste l’intersessualità nella società odierna e come contribuisce a decostruire – o meno – stereotipi e pregiudizi verso persone la cui identità di genere non ricade nel binomio maschio / femmina? Rosa è un colore da bambine, mentre l’azzurro è per i ragazzi. Da quando e perché? I testi sono ricchi di quesiti che connettono efficacemente quanto esposto al bagaglio conoscitivo di chi visita. La narrazione è articolata su più livelli ma si evince la volontà di rendere questi temi accessibili e personalmente significativi anche a chi si affaccia a essi per la prima volta. Io prendo parte a una visita tenuta da uno dei curatori della mostra in conversazione con Nanoah Struik (una delle prime persone in Olanda ad avere ottenuto il segno X sul passaporto per indicare il sesso). Mentre sono nell’ingresso del museo e mi confronto con organizzatori e partecipanti, mi rendo conto che sto per vivere un’esperienza al museo diversa da quelle a cui ho assistito sino a ora. Le due voci ‘guida’ ci rivolgono domande personali: in quale pronome vi riconoscete? Lui, lei, nessuno dei due o entrambi? Alcuni hanno difficoltà a rispondere. Mounir Samuel, co-curatore del progetto espositivo, ci spiega che insieme a Nanoah vorrebbero introdurci alla mostra provocando conversazioni, scambi di punti di vista e critiche. Le conversazioni che seguono sono spontanee e le storie personali aggiungono valore alla narrazione (anche Samuel è una persona non binary gender-queer). I partecipanti appartengono a diverse fasce d’età, mi colpiscono due adolescenti intenti a registrare con molta attenzione tutta la visita (sembrano non volersi perdere una parola), una coppia di donne con la loro bambina e una coppia di anziani che condivide opinioni sul fatto che certi argomenti siano diventanti eccessivamente sensibili politicamente (un tempo, dicono loro, le toilette erano per la maggioranza gender-neutral). Nel complesso i punti di vista sono eterogenei e le esperienze di ciascuno di noi contribuiscono ad accrescere il flusso di contenuti del percorso espositivo.
“Le istituzioni culturali sono realmente capaci di mettere in discussione visioni di apertura – o rottura – verso stereotipi comuni?”
Questa visita è stata co-organizzata con l’IHLIA, l’organizzazione con la collezione sulla cultura LGBT più vasta in Europa. L’IHLIA organizza diverse attività sul territorio nazionale e internazionale, come conferenze in collaborazione con le università e i dipartimenti che si occupano di questi temi, mostre che spesso si avvalgono del contributo di associazioni attiviste, azioni di sensibilizzazione e supporto verso diversi gruppi nella società, come adolescenti e anziani. Attualmente sono in corso una serie di progetti espositivi su tematiche trans che hanno, fra gli altri, l’obiettivo di dare visibilità a gruppi di persone spesso marginalizzate e socialmente isolate.
In questi mesi di lavoro cerco di approfondire la missione svolta da questa organizzazione e soprattutto di considerarne le azioni in rapporto al più ampio tessuto civico e sociale. Come si relaziona l’attività di un’organizzazione culturale impegnata sulle questioni di genere e LGBTQIA+ alle azioni di altre istituzioni (come scuole e centri educativi informali) attive sugli stessi temi? I musei che decidono di dare spazio a questi argomenti quali sfide incontrano? Le istituzioni culturali sono realmente capaci di mettere in discussione visioni di apertura – o rottura – verso stereotipi comuni? E, infine, nel contesto di un ragionamento sul ruolo attivista dei musei, fino a che punto le istituzioni culturali sono disposte a spingersi per agevolare cambiamenti nella percezione collettiva su temi cui ruotano attorno privazioni dei diritti umani e discriminazioni nella libertà di espressione?
Pensiamo al fatto che in Polonia si sta discutendo un disegno di legge che vuole criminalizzare l’educazione sessuale. Ovvero un tassello educativo cruciale per la crescita consapevole di ciascun individuo. Noi, in Italia, a che punto siamo? In che modo le proposte educative su genere e sessualità rivolte a bambini, adolescenti e famiglie incontrano – o meno – il dibattito e le esigenze attuali? Può la cultura trattare argomenti sensibili e controversi che fanno parte del nostro presente?
Questioni di genere a parte, il rischio che stiamo osservando ‒ in varie aree geografiche ‒ è che le istituzioni culturali stiano consolidando il proprio ruolo di fanalino di coda nel dibattito su ciò che conta realmente nella vita delle persone. È un rischio politico, sociale e culturale che possiamo permetterci?
‒ Nicole Moolhuijsen
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