Lezioni di critica #16. Luca Rossi e la commedia degli equivoci
La nuova lezione di critica di Roberto Ago è incentrata su Luca Rossi, l’“anonimo” artista che ha messo alla berlina le magagne del sistema. Restando, però, impigliato lui stesso nella sua rete.
PROLOGO
Una decina d’anni fa fui tra i primi a prendere sul serio il fenomeno “Luca Rossi” (2009), scrivendo su di esso (2011). A quei tempi tenevo una rubrica mensile su Flash Art (Contropelo) e inoltrai come di consueto il mio pezzo. Fui sorpreso di ricevere, in tutta risposta, un rifiuto alla pubblicazione. Luca Rossi era ancora un anonimo rompiscatole e non la “star” di oggi, la redazione addirittura sospettava che fossi io. Fu difficile convincerli che mai il mio amor proprio mi consentirebbe l’anonimato e che Rossi il pezzo lo meritasse. Così quel mese la rubrica sul cartaceo non uscì ma l’articolo apparve sul sito della rivista, salvo sparire poco tempo dopo in seguito al suo aggiornamento. A oggi il testo critico più puntuale attorno alla sua controversa figura risulta irreperibile. Questo piccolo aneddoto si inscrive nel declino generale della critica italiana e ci introduce direttamente al tema di questa lezione.
ATTO I
Cosa c’era scritto di così perturbante da dover essere censurato? Vi sostenevo che, con il suo anonimato, Rossi rappresentava il ritorno di un rimosso, quello della critica appunto, che come da manuale si ripresentava in forma virulenta e distorta. Dato il clima di omertà e censura che le consorterie del nostro non-sistema dell’arte imponevano e impongono, al nostro moschettiere non restò che operare nell’ombra, sciorinando sul suo blog tutte le inettitudini e malefatte dei nostri operatori, artisti compresi. Il successo fu immediato, dividendosi il pubblico tra fan sfegatati e banditori di anatemi. Molti artisti furono entusiasti di udire finalmente la verità, e non parlo di quelli lontani dai riflettori, ma di nomi piuttosto affermati che avevano poco da recriminare e nondimeno condividevano delle critiche finalmente ponderate. Al contrario molti critici, curatori, giornalisti, galleristi e collezionisti non poterono che manifestare sospetto, fastidio e autentico risentimento. I più ingenui lo accusarono di nascondere la faccia dietro una maschera, senza comprendere che il suo anonimato era il contraltare del loro, e mostrando per ciò stesso di non saper decifrare quel simbolico di casa nel loro mestiere. La cifra polemica di Rossi fu il prodotto di un legittimo risentimento verso addetti ai lavori che non onoravano il loro mandato, incapaci di udire l’inaudito di se stessi.
Senonché Luca Rossi, alias Enrico Morsiani, restava un artista. A latere delle consuete stilettate critiche e di un lemmario notevolissimo che aveva il pregio di nominare per la prima volta fenomeni altrimenti inopinati come “Nonni&Genitori Foundation”, “Sindrome da Ikea evoluta”, “Giovani Indiana Jones”, cominciarono ad apparire sugli schermi interventi digitali, operazioni di pirateria virtuale e rendiconti di incursioni ai danni di gallerie, fiere e musei. Sostenendo di voler incarnare tutti i ruoli, a un tempo come blogger, attivista, pedagogo, editore, critico e naturalmente artista, Rossi andò attirando su di sé un cospicuo numero di critiche, prima fra tutte quella di elogiare se stesso screditando i colleghi. Ai moralismi precedenti si affiancò l’accusa, fondata, di tradire ogni deontologia professionale, anch’essa tuttavia perdonabile perché se un artista competitivo fino allo sgambetto è un cliché, uno mosso dal declino di giudizio critico e meritocrazia risulta due volte comprensibile.
Sorprendentemente, dalle schiere degli operatori criticati cominciarono a staccarsi alcuni estimatori, tra cui spiccavano Fabio Cavallucci, Giacinto Di Pietrantonio, Andrea Lissoni e Angela Vettese, a riprova del fatto che i bersagli dileggiati non brillavano per intendimento e coerenza. Averne criticato l’irreperibilità di criteri selettivi e le cantonate artistiche, infatti, aveva avuto il significato precipuo e non compreso di una bocciatura, aggravata da un’immunità che tanto sa di “post-verità”. Rossi, d’altro canto, farà suoi i loro encomi con non poca ingenuità, pubblicizzandoli ovunque. Un’autentica commedia degli equivoci, e una riconciliazione tutt’altro che stupefacente, perché, puntando sulla narcisistica complicità del Rossi-artista, ha finito con il ridimensionare il suo primo e più autentico mandato. Non voglio dire che certe sue operazioni, soprattutto all’inizio, non destassero interesse, ma insomma il suo merito fondamentale stava e sta tuttora in una critica rinnovata che evidentemente non è apprezzabile dai diretti interessati.
ATTO II
In un Paese che ha smarrito il giudizio critico e che lo disinnesca quando si tenta di restituirglielo, Rossi non poteva che essere tentato nuovamente da quella stessa galleria per cui ha sempre nutrito sentimenti ambivalenti, “curato” da quello stesso Di Pietrantonio che lo aveva esortato a limitarsi al virtuale, pena una perdita di efficacia. Due peripezie nel senso drammaturgico del termine, e un palcoscenico che sarebbe stato meglio per entrambi non calcare. Aver reificato i sentieri selvaggi di YouTube per appenderli nel recinto domesticato della galleria ha il sapore inconfondibile di una disfatta, a un tempo artistica e curatoriale. Quelle tele pretendono di riscattare dei codici logori e un’esecuzione posticcia in virtù dei contenuti extradiegetici a cui rimandano (errore n. 1), per giunta tutt’altro che imperdibili (errore n. 2). Se testimoniano i tempi, è perché radicale appare lo iato tra il mondo della comunicazione e quello di un’arte contemporanea che appare incapace di rinnovarsi come fino all’altro ieri. Consapevolmente Rossi ha interpretato un agnello sacrificale che abbia assunto su di sé un’obsolescenza ineludibile, con Di Pietrantonio quale sacrificatore; l’operazione, tuttavia, non va letta come ce la vendono i due sodali nell’intervista che accompagna la mostra, perché trattasi della radiografia di una poiesis che se anche è avvertita come obsoleta, nemmeno si ha il coraggio di abbandonare. Qui sta l’inciampo, nella nostalgica ambizione di aver voluto appendere, magari per l’ultima eroica volta, dei dipinti al passo coi tempi, un tentativo destinato a fallire perché ancora non comprende che il problema è il contenitore (in senso lato), e non più ciò che vi si mette dentro. Museificando la vita secondo una prassi ritualistico-sacrificale, esso ha finito per sabotare qualsiasi tentativo di ospitare la vitalità e novità di cui si nutre. Ma se il dionisiaco nicciano fatto proprio dall’arte moderna e contemporanea è tramontato (idealmente nel 2001), il nuovo secolo ha visto risorgere l’ermeneutica “musiva” propria di Apollo-Hermes, cosicché l’opera del nuovo corso, se anche ha perso la possibilità dell’innovazione radicale, può ancora ambire alla sofisticazione concettuale e al piacere dell’occhio. E allora davvero non è questo il caso: infelice è l’uso retorico che si è fatto del quadro, nullo il suo valore estetico.
ATTO III
Contrariamente all’opinione comune, Rossi è anche e soprattutto un critico, eterodosso ed esemplare a un tempo. Quello che più andrebbe apprezzato, a cominciare da lui stesso, e che invece si continua a screditare. Chi volete che contribuisca a sabotarne azione e reputazione, se non sempre Di Pietrantonio? A latere della goffa mostra tenuta alla Galleria Six, Rossi continua a imperversare egregiamente sul Web, in particolare su Facebook. Alla notizia delle tre nomine al MAXXI Bulgari Prize, appronta tre tavole comparative degne del miglior topo d’archivio, le quali ne smascherano l’opera di plagio. La sua ansia di novità non è tale da fargli confondere plagio e manierismo, cosa che invece fa Di Pietrantonio, replicandogli che l’arte è sempre stata ripetizione differente, maniera, citazione. Vero, controbatte Rossi, peccato che non sia questo il caso: si tratta di tre esercizi di stile che nulla aggiungono agli originali, e più in generale di tre ricerche conformiste secondo il criterio di consenso oggi per la maggiore. Non si può che convenire con lui, provate a chiedere a un osservatore affidabile quale Francesco Bonami e vedrete che il suo giudizio coinciderà con quello di Rossi. Di promesse non mantenute i nostri premi nazionali ne hanno viste talmente tante che nemmeno sorprende più vedere ripetuti gli stessi errori. Commessi non solo dagli artisti, quanto soprattutto dai curatori che li selezionano, questa contrazione del mestiere di critico che è tempo di definire in quanto tale, specie in Italia. Come osserva il nostro, essi fanno il male degli artisti nel momento stesso in cui li illudono di promuoverne il successo, stabilizzandone le ricerche quando andrebbero criticate e meglio indirizzate.
FINALE DI PARTITA
L’augurio dunque è che Rossi privilegi il suo antico mestiere di guastafeste senza lasciarsi fagocitare da curatele pericolosamente festaiole. Soprattutto i giovani artisti prendano sul serio le sue analisi dolorose e nondimeno corrette, perché anno dopo anno hanno profetizzato le tante promesse non mantenute. Poiché ciò rischia di valere anche per lui, ascolti il monito che lui stesso proferisce: impari a dipingere con virtuosismo tecnico e concettuale, o altrimenti abbia il coraggio di operare esclusivamente negli spazi espositivi virtuali. Se anche il rendiconto economico rischia di non essere lo stesso, la speranza di scoprirsi un giorno in un paragrafetto di storia dell’arte non vale più di qualche migliaio di euro in quadri venduti? Per conquistarselo, oltretutto, ce n’è da lavorare e migliorare, mentre questa lezione fa piazza pulita degli equivoci immortalando il “critico” e non (ancora) l’artista.
‒ Roberto Ago
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Lezioni di critica #5. Stori(ell)a dell’Arte Italiana d’inizio millennio (II)
Lezioni di critica #6. Stori(ell)a dell’Arte Italiana d’inizio millennio (III)
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